Per molti l’aceto per antonomasia è l’aceto di vino e in effetti il termine italiano “aceto” deriva dal latino acetum participio perfetto sostantivato del verbo aceo (inacidire). Ancor più chiaro è il termine che in francese indica l’aceto, vinaigre derivante dal latino vinum acre. Ed è dall’antico francese che derivano anche lo spagnolo vinagre e l’inglese vinegar.

In realtà però con il termine aceto oggi non si indica un solo prodotto ma una miriade di prodotti che vanno dall’aceto di vino a quello di malto o di sidro, dall’aceto artificiale a quello fabbricato senza fermentazione, fino all’aceto balsamico e agli aceti aromatizzati.

Per quanto riguarda la legislazione in materia, attualmente le principali disposizioni relative a tale settore sono contenute in leggi nazionali poiché la normativa comunitaria si limita a dare la definizione di aceto di vino. Nel nostro Paese è oggi consentita la preparazione e il commercio di prodotti che portano la denominazione “aceto di…” seguita dall’indicazione della materia prima da cui deriva, del prodotto proveniente dalla fermentazione acetica di liquidi alcolici di origine agricola atti al consumo alimentare.

La normativa comunitaria definisce l’aceto di vino come il prodotto ottenuto esclusivamente dalla fermentazione acetica del vino e avente un tenore in acidità totale espressa in acido acetico non inferiore a 60 g/L, vale a dire al 6%, ugualmente vieta la commercializzazione sul proprio territorio di prodotti denominati “aceto” ottenuti mediante diluizione con acqua di acido acetico di sintesi (sebbene in alcuni Stati membri possano essere prodotti legalmente). La legislazione italiana fa poi una distinzione tra aceti comuni e aceti di qualità che dal punto di vista dei parametri analitici si traduce in un limite minimo del 7% di acidità per i prodotti di maggior pregio. La distinzione fra aceti comuni e di qualità trova però riscontro nel fatto che le materie prime e i processi di fabbricazione applicati per la loro produzione sono diversi: per gli aceti comuni infatti di norma vengono impiegati vini acescenti o comunque leggermente alterati e il processo di fermentazione usato è quello rapido a sommersione, i tempi di riposo per la maturazione ammontano a pochi mesi; gli aceti di qualità invece provengono da vini sani appositamente preparati per tale produzione. Il processo di acetificazione è più lento e avviene mediante il sistema truciolo che conserva maggiormente la composizione del vino originale. Gli aceti rossi così ottenuti vengono lasciati invecchiare per 6 mesi in fusti di legno e quindi travasati in acciaio inox per un ulteriore periodo di invecchiamento; gli aceti bianchi invece vengono conservati per circa un anno in vasche di acciaio. Questi prodotti definiti “di qualità” sono caratterizzati da un residuo alcolico più alto, un’acidità acetica superiore, una composizione più armonica degli acidi fissi e da caratteristiche organolettiche più spiccate.

Quanto al chimismo della trasformazione del vino in aceto, di norma si parla di fermentazione acetica ma il termine è alquanto improprio poiché si tratta in realtà di una biossidazione acetica perché avviene in presenza di ossigeno. In questa trasformazione intervengono i batteri acetici che attaccano l’alcol e, dopo alcuni passaggi intermedi portano alla formazione di acido acetico.

È curioso quindi notare come l’evoluzione spontanea del mosto porti naturalmente all’aceto e non al vino che in quest’ottica deve considerarsi una fase intermedia della degradazione degli zuccheri del mosto. Peraltro nel processo di acetificazione bisogna evitare che l’alcol venga consumato completamente in quanto in tal caso i batteri acetici ossiderebbero l’acido acetico da essi formato con riduzione delle rese o, al peggio, perdita del prodotto.

L’acido acetico è quindi il componente più abbondante degli aceti ai quali conferisce aroma, il caratteristico gusto pungente e le proprietà conservanti. Per quanto riguarda le altre sostanze in esso presenti, bisogna dire che la composizione dell’aceto è assai complessa e molto variabile e dipende dalla diversa natura dei substrati di partenza.

Le tecnologie di produzione, già accennate sopra, sono numerose. Tra le tante ricordiamo le principali e cioè il sistema che prevede l’utilizzo di trucioli e il metodo rapido per coltura sommersa. Il primo è un metodo tradizionale di lavorazione comunque industriale che prevede l’impiego di un acetificatore a percolamento, costituito da un tino di legno munito di una grata nella parte inferiore e riempito di materiale poroso sul quale sono distribuiti gli acetobatteri. Il vino, alimentato dall’alto, attraversa per gravità lo strato poroso raccogliendosi parzialmente acetificato sul fondo del recipiente da dove viene poi ripetutamente riciclato fino ad ottenere il grado di acetificazione desiderato.

Il secondo metodo è tra i più utilizzati e prevede che l’aerazione del substrato sia garantita da una turbina ad aria compressa alla base del tino.
L’evoluzione delle tecnologie di produzione dell’aceto hanno visto varie tappe tra cui sicuramente il passaggio a processi continui più semplici e con costi di gestione meno elevati e poi l’aumento della velocità di bioconversione attraverso un miglioramento delle condizioni fermentative.

La tecnologia di produzione dell’aceto ovviamente non si ferma qui in quanto il prodotto necessita di una prolungata fase di maturazione e di una serie di trattamenti che si possono ricondurre a quelli dell’industria delle bevande fermentate. La maturazione dell’aceto si protrae per alcuni mesi e coinvolge numerose reazioni chimiche ed enzimatiche che contribuiscono alla genesi delle sostanze aromatiche tipiche di un prodotto di qualità.

L’aceto è conosciuto da migliaia di anni e nell’antichità veniva usato per conservare alcuni tipi di preparazioni alimentari.

Gli antichi Egizi ne facevano uso, come anche i Romani dai quali viene citato nel “De re rustica” di Columella e nel “De opsoniis et condimentis sive re coquinaria libri decem” di Marco Gaio Apicio. Nel Medioevo, dalle testimonianze scritte che sono giunte fino a noi, l’aceto viene ricordato come componente importante di numerose ricette ma non come mezzo di conservazione del cibo, questo suo utilizzo appare invece frequente nell’evo moderno.

Oltre che nell’alimentazione l’aceto era ed è ancora oggi usato in campi diversi. In profumeria per esempio i suoi esteri e aldeidi hanno impiego nelle formulazioni di essenze e profumi, in farmacia invece, prima dell’avvento dei moderni ausili terapeutici, era usato con frequenza per colluttori e gargarismi o puro da fiutare, in casi di lipotimia, come diuretico, zuccherato contro il singhiozzo o diluito con acqua contro gli stati febbrili. Sempre diluito in acqua era usato come bevanda dissetante per le truppe e dai contadini, che durante le forti calure estive usavano dissetarsi con acqua aggiunta di alcune gocce d’aceto; ancora oggi allo stesso scopo, è usato in alcune zone agricole del Nord Europa.

Fu la bevanda offerta a Gesù in croce. Nella medicina popolare l’aceto venne usato negli avvelenamenti da alcali e come rimedio esterno per lavare piaghe e ferite infette, come revulsivo per frizioni. Era considerato anche elemento efficace per combattere il contagio della peste e, quando non esistevano guanti da lavoro, era utilizzato da chi era deputato alle sepolture. Con lo sciroppo d’aceto, ottenuto con zucchero, aceto ed eventualmente sciroppo di lampone, si ottiene una bevanda dissetante molto gradita ai bambini.

L’aceto contribuisce senz’altro al ruolo protettivo della dieta mediterranea nei confronti delle patologie cronico-degenerative. È considerato da alcuni autori come componente “semi-essenziale” per una corretta alimentazione con un ruolo nel mantenimento dello stato di salute. Pare infatti che abbia un certo controllo delle patologie connesse all’arteriosclerosi e che abbia effetti anticancerogeni sul tratto gastroenterico e su altri tessuti periferici.

Un’innovazione che si è avuta nei tempi moderni è stata quella di unire all’azione conservante dell’aceto quella del calore con trattamenti termici di pastorizzazione o sterilizzazione. Nell’industria alimentare moderna l’aceto, grazie alle sue caratteristiche, è utilizzato per la conservazione degli alimenti, per l’ammorbidimento delle fibre, per aromatizzare, solubilizzare o strutturare i cibi. L’aceto infatti ha proprie caratteristiche aromatiche, ma ha anche la capacità di assumere da altri prodotti vegetali sostanze che è poi in grado di fornire a numerose preparazioni gastronomiche.

Nel cavo orale l’aceto, a causa delle sue stimolazioni gustative acide e salate e talvolta leggermente amare provocate dai costituenti del liquido di origine, è utile per favorire l’equilibrio fra i quattro sapori fondamentali; in cucina contribuisce a equilibrare i sapori e le sue note organolettiche, vivaci ma discrete, rappresentano un complemento prezioso della gastronomia. Benché si dica che non si deve bere vino sull’insalata o su piatti conditi con aceto, si può tranquillamente degustare un vino giovane di origine analoga a quella dell’aceto ottenendo un abbinamento che può risultare gradevole.

Tra i grandi aceti, i più noti a vantare un’elaborazione esemplare e una notevole nobiltà espressiva, sono sicuramente l’aceto di Xeres e quello balsamico di Modena. Quest’ultimo un tempo era offerto al consumo su scala limitata perché di produzione prevalentemente casalingo-artigianale e perché la richiesta era circoscritta a zone limitrofe a quella di produzione. Ma la vera e più importante ragione, risiedeva nel fatto che, nonostante la genuinità del prodotto, l’aceto balsamico di Modena, per la sua particolare modalità di preparazione, era al di fuori della normativa che regolava la produzione degli aceti commerciabili, principalmente perché a un’analisi chimica di tale prodotto sarebbe risultata positiva la ricerca di caramello, vietato per la produzione del normale aceto di vino.

Nel 1965, con un Decreto del Presidente della Repubblica, la legislazione italiana ammetteva la produzione e il commercio degli aceti speciali e in particolare di quelli “… preparati con le tecniche caratteristiche e tradizionali, come quella per l’Aceto Balsamico di Modena e simili” di cui fissava caratteristiche chimiche di composizione e modalità di preparazione. L’aceto balsamico di Modena infatti si ottiene, con una particolare tecnologia, dalla fermentazione alcolica e acetica di mosti d’uva sottoposti a concentrazione a fuoco diretto senza alcuna addizione di sostanze aromatiche. Il mosto cotto matura per lenta acetificazione derivata da naturale fermentazione e progressiva concentrazione mediante un lungo invecchiamento in una serie di botti e botticelle di legno di essenze diverse (gelso, castagno, ciliegio, ginepro) nelle quali viene periodicamente travasato con un’operazione definita “rincalzo“. Dopo tre anni l’aceto così prodotto si ritiene “invecchiato”, ma solo dopo 12 anni diventa aceto balsamico tradizionale di Modena.

Nel 1989 viene riconosciuta la denominazione di origine “Aceto balsamico di Modena” per cui l’area di produzione è ora limitata ai territori amministrativi delle province di Modena e di Reggio Emilia e vengono riconosciute le denominazioni “Aceto balsamico tradizionale di Modena” e “Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia”. Secondo la normativa vigente l’aceto balsamico di Modena è da considerarsi a tutti gli effetti un aceto e pertanto deve sottostare anche a tutte le disposizioni previste in materia di aceti, mentre gli aceti balsamici tradizionali di Modena o di Reggio Emilia sono da considerarsi condimenti e quindi sono soggetti solo alla disciplina generale dei prodotti alimentari.