di Alexander Màscàl

Da sempre il vino ha richiesto una particolare cura della vite che viene accudita quasi amorevolmente, e dei grappoli che vengono raccolti ad uno ad uno, quasi con sacralità. Le cure che il contadino pone provengono dalla cultura e dalla tradizione, ma sono anche quelle particolari attenzioni indispensabili per un buon raccolto. Il vino ha sempre avuto un ruolo importante nella cultura e nella civiltà popolare. Non a caso attorno a sè ha sempre conservato un’aura di sacralità e di mistero e non solo il culto cristiano, ma molte altre culture e religioni gli riconoscono una religiosità in grado di mettere l’uomo in contatto con gli Dei o di rappresentare il proprio Dio.

Dalla Messa ai riti di Magia, sino al più semplice gesto nel versarlo o nell’offrirlo, il vino ha sempre conservato un “rituale” quasi maniacale. Vino, Magia e Superstizione hanno sempre fatto parte della cultura dell’uomo. Il succo dei grappoli era particolarmente sacro a Dioniso, il dio greco, figlio di Zeus che insegnò agli uomini la coltivazione della vite. Nella religione dei misteri gli veniva attribuita l’arte della divinazione e delle guarigioni. Le feste in suo onore erano celebrate con riti orgiastici (i baccanali), che nell’Italia romana erano simili a quelli greci del culto misterico di Dioniso-Bacco, in cui i riti notturni degeneranti in orge furono proibiti nel 186 a. C.

Bacco era anche uno dei nomi con cui veniva identificato e le “baccanti” o “folli”, nell’antica Grecia erano le donne che partecipavano ai riti orgiastici in suo onore e… protagoniste della tragedia “Le baccanti” di Euripide di cui l’ultima sua rappresentazione avvenne nel 406 a.C. Secondo San Bernardino da Siena versarlo in terra o sulla tavola porterebbe “Abbondanza” a… quell’oste che ogni volta riempiva il bicchiere degli avventori sino all’orlo, poi fingendo d’inciampare urtava la tavola per versare il vino e felice urlava “Divizia, divizia” (Abbondanza, abbondanza).
E “abbondanza” cessò, quando un avventore, stufo, stappò una botte all’oste e alla vista del gran quantitativo di vino sparso si mise ad urlare anch’egli “Divizia, divizia”. Ma questa volta non fu “divizia” per l’oste che denunciò l’avventore. Fortuna volle che il capitano di giustizia, uomo saggio, diede torto all’oste affermando che la gioia e il buon augurio non devono derivare solo dal danno degli altri … Nella superstizione, per rendere meno sgradevole un fatto spiacevole, un’ inconscio pensiero “consolatore” vuole che versarlo porti fortuna. Giuda, nella cena del tradimento, lo versò tenendo la bottiglia alla base, quindi la superstizione vuole che si versi afferrando la bottiglia per il collo. Un tal Belgrano, commentando un codice di medicina e scienze occulte genovese, del XV secolo, affermava che stemperando la feccia del vino vecchio nell’olio, e facendone un unguento da spalmare su tutto il corpo, rallegra il cuore dell’uomo facendogli vedere cose straordinarie… Sempre in un codice genovese del XV secolo, si legge una disgustosa cura che prescriveva di sciogliere il fiele di una lepre in un bicchiere di vino e darlo da bere a chi pativa d’insonnia, mentre un’altra formula consigliava: “Beva del vino con rastiature di corna di giovenca, bruciate quando la luna è in quintadecima, chi ha difficoltà nel parlare”. Questi, alcuni esempi di vino-magia e medicina, ma per scrivere magiche formule o empirici medicamenti a base di vino occorrerebbero interi capitoli.

La vendemmia iniziava dopo la Madonna del Rosario, il vino si travasava il Venerdì Santo e tutta la comunità offriva le uve che sarebbero servite a fare il Vino per le messe. A Santo Stefano Belbo, nelle Langhe albesi, sul confine con la provincia di Asti, da quasi cento anni nel monastero delle Figlie di San Giuseppe, le suore producono uno speciale “Moscato da Messa” che servirà ai sacerdoti di tutta l’Italia per officiare il servizio liturgico. Da sempre la Madre Superiora è la responsabile della vinificazione, coadiuvata da un enologo e dalle “consorelle”.

I segreti della vinificazione vengono tramandati oralmente da quando Clemente Marchisio, parroco di Rivalta Torinese (TO), in visita al Pontefice Leone XIII (1810-1903), venne invitato a produrre nella propria zona il vino indispensabile per la messa. Nelle colline torinesi nacque quindi una prima congregazione specializzata nella coltura e trasformazione del vino. Nel 1906 che un gruppo di suore si trasferì a Santo Stefano Belbo(CN) proseguendo la produzione del “Vino bianco per la Messa”.

Oggi si può parlare di un’azienda specializzata… al servizio della liturgia cristiana, una sorta di cantina-monastero, una delle tante aziende gestite da frati e monache che, non solo in Italia, producono marmellate, mieli, conserve, vini, tisane, liquori e altre “sante ghiottonerie”. La scelta delle uve migliori, da acquistare sui mercati locali, e la parte tecnica della lavorazione sono affidate all’enologo ma, per tradizione, la parte “segreta” che si riferisce alla trasformazione, viene eseguita dalle suore-enologhe-cantiniere, senza altro intervento esterno. Il vino prodotto serve esclusivamente per uso liturgico e per questo, per evitare la vendita a privati, viene confezionato in bottiglie particolari, con speciali tappi, capsule ed etichette.

Un tempo in quasi tutte le vigne venivano impiantati alcuni filari di uva moscato da cui ricavare il vino per le grandi occasioni. Ogni famiglia conservava alcuni grappoli appendendoli alle travi della cucina o ponendoli su speciali ripiani, per poi consumarli a Natale. Le bottiglie dell’annata migliore si custodivano nei “crotin” o “infernot” (cantine), per “stapparle” il giorno del battesimo dei figli e se nasceva maschio, quelle dell’annata venivano conservate per festeggiare la “leva”…18 anni dopo.
Era davanti ad un bicchiere di vino che si suggellava un accordo, si rafforzava un’amicizia o si accoglieva un ospite, si stipulava un patto matrimoniale… quando a scegliere la sposa… erano il padre e il “bacialè”… A chiedere ufficialmente la mano della “morosa” era il padre che accompagnava il figlio e se il padre della ragazza acconsentiva li invitava ad entrare e a sedersi alla loro tavola per “destupè” (stappare), una bottiglia di “quello buono”.

La provenienza del “Moscato bianco” ha origine dal bacino orientale del Mediterraneo. Il nome “moscato” deriva dalla particolare dolcezza dei suoi grappoli che appunto… attira le mosche. Il caratteristico sapore “moscato” deriva da “muschio” ed era già anticamente coltivato in una vastissima area compresa tra Asia Occidentale ed Europa, ma si diceva che era nato “per volere degli Dei”… Già i Romani, tre secoli prima di Cristo conoscevano questo vino aromatico. Catone (Marco Porcio detto il Censore, 234-149 a. C, e autore di “Agricoltura”), lo chiamava “Apicius”. Per Columella (Lucio Giunio Moderato, I sec. a. C, che scrisse un trattato sull’agricoltura), e Plicio, era “Apianae”, nome che indicava come le api prediligevano quest’uva dolcissima. Si sa per certo che i Romani conoscevano i vini spumeggianti ottenuti dalla fermentazione in recipienti chiusi. Nel biblico libro dei Salmi (raccolta di 150 composizioni di carattere sacro), si parla di “una coppa dove spumeggia un vino”. Virgilio (70-19 a.C.), scrive di un vino spumeggiante. La mancanza di recipienti robusti, adatti al contenimento del vino, fa dedurre che la produzione si limitasse a quelli leggermente frizzanti, almeno sino al 1600. In seguito la produzione dello spumante fu possibile solo grazie all’uso di bottiglie capaci di resistere alla forte pressione interna e a quello dei tappi di sughero. Pare che proprio verso la metà di quel secolo alcuni commercianti londinesi riuscirono a produrre il primo spumante con caratteristiche simili a quelle dei nostri giorni, utilizzando vino francese proveniente da Champagne, a cui aggiunsero alcune spezie: cannella, melassa e chiodi di garofano. I francesi producevano i primi spumanti attorno al 1700, ma ci vollero due secoli per migliorare e perfezionare la tecnica di produzione.

I primi vini prodotti, non ancora secco, vennero posti in bottiglie resistenti alla pressione interna, ma spesso l’effetto era disastroso in quanto a quei tempi si usava fermentare i vini in piccoli fusti, poi s’interrompeva la fermentazione ai primi freddi, per riprenderla in bottiglia durante la primavera. La conseguenza era che il gas sviluppato provocava una pressione tale da fare scoppiare le bottiglie.
Il vino rifermentando produce un sedimento che altera la limpidezza del vino. Verso la fine del ‘700 si tentò di rendere più limpidi gli spumanti semplicemente travasandolo da una bottiglia all’altra e filtrandoli. Poi si perfezionò un metodo già descritto nel 1813 e che è tutt’ora in uso: il “remuage” e il “degorgement”.

Le testimonianze sulla conoscenza delle uve moscato in tempi remoti sono molte. Nel XIII secolo si menziona la compravendita di vigne e poderi negli Atti e negli Statuti del comune di Canelli (AT), mentre in Liguria, particolarmente a Taggia, provincia d’Imperia, come in Sicilia, era coltivato il Moscato bianco, in versione amabile o liquoroso, molto apprezzato dalle corti europee. Nel 1511 negli Statuti di La Morra (CN), si cita il “Muscatellum”. Il Duca di Mantova nel 1579 richiede “talee” alla comunità di Santo Stefano Belbo. In una lettera datata 5 aprile 1593, tra il Magistrato di Casale Monferrato (AL), e il Comune di Santo Stefano Belbo (CN), si parla di “barbatelle di Moscatello” destinate al Duca di Mantova e Marchese del Monferrato. L’alto costo per il trasporto lo rendeva accessibile solo ai nobili, ai potenti, ai ricchi mercanti e ai banchieri piemontesi che gareggiando con l’aristocrazia feudale non facevano mancare sulle proprie tavole l’aromatico vino. Questo favorì l’introduzione del vitigno in Piemonte, anche se non sempre con esiti favorevoli. Agli inizi i filari si trovano accanto ad altre coltivazioni, per lo più si trattava di pochi filari vitati a moscato. Nel XV secolo il vino Moscato dolce, si ottiene solo con l’appassimento delle uve, diversamente il prodotto ottenuto sarebbe risultato di qualità scadente.

I vini dolci liquorosi, e quelli rossi e corposi prendono il sopravvento tra il Cinquecento e il Seicento segnando il declino del Moscato che invece guadagna il mercato nell’area classica di Canelli, Santo Stefano Belbo e Calosso, come dimostra il commercio intrattenuto nel XVI secolo con il Duca di Savoia e la corte dei Gonzaga di Mantova (a cui apparteneva Santo Stefano). L’idoneità del territorio di Canelli portò queste zone ad una coltura prevalentemente a uve moscato, in grado di fornire la fiorente attività vitivinicola nell’esportazione all’estero.