Abbadia San Salvatore
Abbadia San Salvatore
Abbadia San Salvatore
Castel del Piano

I boscaioli avevano lavorato tutto l’autunno per assicurarsi le scorte necessarie per l’inverno. Da Arcidosso e Castel del Piano, molti se ne erano già andati nella più mite Maremma, ad affrontare lavori stagionali che consentissero loro di sopravvivere; ma a Piancastagnaio e Abbadia, sul versante senese, si preparavano a tagliare le legna per il lungo inverno. Forse sin dai tempi degli etruschi, quando la montagna era il cono sacro per eccellenza, terra – tempio per l’adorazione degli dei e la lettura degli aruspici, l’inverno veniva affrontato alla stessa maniera, i legni sacri, dopo che avevano offerto i loro frutti, erano tagliati e bruciati e il fuoco serviva per purificare e insieme attrarre i benefici per un anno che non fosse di siccità o di carestia.

Le case erano quelle che descrive Montale nella sua poesia sull’Amiata: travi annerite, grandi caminetti. Qualche scorta di farina di castagne, per la polenta, era stata fatta. I più ricchi avranno ucciso il maiale e si preparavano a mangiarne le carni per il giorno di Natale. Forse c’era anche qualche pannocchia di granturco per i bambini.

Le serate erano lunghe e fredde e, come nei racconti di Dickens, intorno a quel grande camino la gente si incontrava, per fare le veglie o, come si dice qui, a veglia. E anche da noi, non diversamente che in Inghilterra, si amavano molto le storie gotiche, i racconti di fantasmi e di notti tempestose, perché forse anche qui, come in Inghilterra, il clima è rigido e c’è bisogno di qualche brivido per riscaldarsi.

C’erano le streghe, da noi, le befane che entravano dal caminetto e lasciavano doni per i bambini: se erano stati buoni, dolcetti, se erano cattivi, carbone. La befana è una strana creatura: brutta come una strega, ma buona come una fata – e tuttavia infida, perché ai nostri bambini si diceva che se non si comportavano bene veniva la befana a portarli via. E chissà dove li portava e chissà che ne faceva: forse, come la strega di Hänsel e Gretel, li rinchiudeva nel forno dopo averli ingrassati e li divorava in un sol boccone. O forse li portava nella terribile rocca di Radicofani, dove era sorto il mito di quel terrificante Ghino di Tacco che fermava i pellegrini e si faceva pagare grossi dazi.

Ecco, si stava lì, a sgranocchiare pannocchie, forse a sbucciare ancora qualche castagna o magari a prendere a morsi una dura castagna secca, con quel sapore così dolce. Gli alberi non venivano addobbati: venivano bruciati. Ma si passava delle belle serate.

Natale sull’Amiata

Il Natale amiatino ha un’aria d’altri tempi, un po’ pagana se vogliamo. La maggior parte delle celebrazioni hanno infatti come protagonista il fuoco e richiamano alla memoria un’epoca in cui ancora non esistevano gli alberi di Natale e i presepi. E’ anche ovvio che l’Amiata è stata per secoli una terra povera, che abbondava soltanto di una cosa: il legname. Quale materiale migliore per fare falò? Le feste natalizie sono pertanto a un tempo tradizionali e tipiche, ma anche legate alle celebrazioni invernali di augurio di fertilità, dunque di stampo agricolo.

La prima festa del fuoco dell’Amiata è quella che inaugura l’entrata dell’inverno a Santa Caterina, frazione di Roccalbegna: un pagliaio infuocato il cui stollo viene conteso dai giovani delle varie contrade, quindi bruciato e le ceneri sparse sui campi come segno di fertilità. Ma questa festa, detta della Focarazza, si celebra nel giorno di Santa Caterina d’Alessandria, il 24 novembre, a ricordarne il martirio; mentre un mese esatto trascorre prima delle celebri Fiaccule di Abbadia San Salvatore, oltre 40 cataste di legna innalzate al cielo che nella notte della vigilia di Natale “riscaldano le genti”.

L’origine delle fiaccole si fa risalire al tempo in cui gli abitanti dei villaggi sparsi intorno all’Abbazia del SS. Salvatore, quando ancora non esisteva il paese di Abbadia, nella veglia della Notte di Natale in attesa della Messa, accendevano i fuochi per riscaldarsi. Se l’origine delle Fiaccole si perde nella notte dei tempi, per i nostri nonni esse costituivano una delle più cospicue fonti di divertimento dell’intera annata: i ragazzi cominciavano per tempo a raccogliere le legna necessarie ai grandi falò, facendo la questua presso i vicini: ogni via si preoccupava di costruire la propria fiaccola e di custodirne le legna nelle notti precedenti la vigilia di Natale. Oggi questa tradizione si è persa, ma non si è persa l’abitudine di andare in giro per fiaccole a cantare le pastorelle e a cuocere qualche salsiccia, in attesa che il giorno di magro sia finito.

La notte del 30 dicembre continuano i riti del fuoco con la Fiaccolata di Santa Fiora. Un tempo rito di iniziazione, oggi consiste in un corteo di fiaccole ardenti, che si snoda, secondo la gestualità e le forme espressive originali, dalla piazza principale per le strade e i vicoli degli antichi terzieri di Castello, Borgo e Montecatino, tutti corredati dalle caratteristiche carboniere (cataste di legna), fino a confluire sotto il portone di Palazzo Sforza, dove la distribuzione delle caldarroste, del vin brulè e della tipica polenta dolce, preparata con la farina di castagne, diventa occasione di festa popolare.

Una parte cospicua del Natale amiatino è infatti la preparazione dei vari pranzi e cene dei giorni di festa e in certi luoghi il menu è ancora rigorosamente quello dei contadini e dei minatori della prima metà del secolo scorso. La vigilia va rispettata scrupolosamente, come a Pasqua, per cui la cena del 24 dicembre non prevede piatti di carne, che però si preparano per l’indomani.

E mentre il menu natalizio può variare liberamente (anche se quasi mai mancano dalle tavole i tradizionali capponi, tacchini e arrosti misti o i tortellini in brodo, insieme ai dolci tradizionali), quello della vigilia è pressoché identico. Si comincia con un antipasto che viene chiamato genericamente “Crostino”: un piatto a base di diverse specie di cavolo lesso, condito con olio, acciughe, aglio, aceto e versato su pane raffermo. L’ingrediente principale è naturalmente il cavolo: fiore, verza, nero, broccoli, rape e quant’altro si possa trovare in questa stagione. Come primo di solito troviamo una minestra di ceci, condita con abbondante rosmarino, in cui vengono cotti i tagliatini, una pasta simile alle tagliatelle ma tagliata molto più fina. I secondi possono variare, tuttavia – strano a dirsi per una montagna – sono soprattutto a base di pesce.

Pesce povero, naturalmente: il baccalà arrosto con le patate, che era molto apprezzato dai minatori, i quali potevano, grazie ai metodi di conservazione sotto sale, gustarlo anche in montagna, oppure (pesce un po’ meno povero, soprattutto ai giorni nostri) l’anguilla in umido. Più tradizionali sono invece le lumache, qui dette volgarmente lumacci, che richiedono una complessa preparazione. Vanno infatti purgate a lungo e quindi lavate, accertandosi che nessuna lumaca sia morta nel frattempo. I gasteropodi vengono quindi lessati, con o senza guscio, a seconda delle preferenze, e poi ancora cotti in sugo di pomodoro, con abbondante aglio. E’ un piatto gustosissimo, che non ha nulla da invidiare alle famose escargots francesi e che si può ancora trovare in qualche ristorante amiatino, non solo a Natale. Per la vigilia è particolarmente indicato, perché non è un piatto di carne vera e propria, anche se non si può dire neppure che sia un cibo da giorni di magro.

Da qualche anno, alle feste tradizionali si sono aggiunte altre piccole tradizioni importate: molti presepi vengono costruiti nei vari paesi dell’Amiata: al Saragiolo, vicino a Piancastagnaio c’è un vero e proprio festival del presepe; ma anche nell’Abbazia del San Salvatore alcuni professionisti (creatori di bambole, elettricisti, meccanici) preparano un graziosissimo presepe nella cripta, cui non mancano deliziosi effetti speciali.

Il 28 dicembre a Castel del Piano viene realizzato un presepe vivente con attori e comparse locali che ripercorrono le vie del centro storico, dove vengono riaperte le antiche botteghe e ricreata la capanna di Gesù.

Le celebrazioni si concludono la notte del 5 gennaio con i canti dei befanotti intorno a Saragiolo, Marroneto, Semproniano, Petricci, ecc.: uomini travestiti da befane che passano per le vie del paese, cantando canti tradizionali nella fredda notte del 5 gennaio, a concludere un ciclo di riti invernali ancora molto legati alla terra e alle sue antiche usanze.

I riti del fuoco natalizio

Tutte le feste amiatine legate al fuoco mostrano i segni della loro origine pagana: il culto del fuoco, simbolo di purificazione e rigenerazione, di luce e di calore nella stagione fredda; il culto dell’albero, elemento di carattere propiziatorio e sede di esseri benigni o maligni nella foresta; il rituale di iniziazione giovanile, con le azioni simboliche del salto sul fuoco, delle scalate e del trasporto di fiaccole accese. Tutti questi elementi sono presenti nella festa pre-natalizia di Santa Caterina, frazione di Roccalbegna, dove la bruciatura dello stollo rappresenta il martirio della santa di Alessandria.

Per quanto riguarda le fiaccole di Abbadia, pare che abbiano avuto origine dai fuochi che gli abitanti accendevano per scaldarsi in attesa della messa di Natale e come omaggio all’abate del monastero. In passato, dopo che la fiaccola aveva arso per tutta la notte, la gente raccoglieva le braci e le portava in casa come segno di buon augurio. Anche la fiaccolata di Santa Fiora si svolgeva in passato alla vigilia di Natale, ma oggi viene celebrata il 30 dicembre. Consiste in un corteo di fiaccole ardenti che si snoda, secondo la gestualità e le forme espressive originali, dalla piazza principale per le strade e i vicoli degli antichi terzieri di Castello, Borgo e Montecatino, tutti corredati dalle caratteristiche carboniere (cataste di legna), fino a confluire sotto il portone di Palazzo Sforza, dove la distribuzione delle caldarroste, del vin brulé e della tipica polente dolce preparata con la farina di castagne, diventa occasione di festa popolare. Anche per le fiaccole abbadenghe viene offerto il cibo, segno di rituali antichi quali la ridistribuzione dei beni alimentari e il pasto comune.

A Santa Fiora, la fiaccola è costituita da un palo di legno di castagno sul quale viene fissato un grande mazzo di scope, dette “rogge“, con tre legature di “venco” e due assicelle incrociate. I più giovani, con l’aiuto del padre e del nonno, portano la fiaccola in processione: è questo l’aspetto di iniziazione giovanile. I ragazzi fanno roteare e saltare i fuochi per allontanare gli spiriti maligni.

Ad Arcidosso e a Roccalbegna le carboniere ardono durante la dodicesima notte, tra il 5 e il 6 gennaio. Ma è una tradizione recente.

Gli appuntamenti: tradizione e innovazione

Alle tradizioni natalizie dell’Amiata si sono poco a poco mescolati eventi nuovi, che col tempo sono diventati loro pure delle tradizioni. Essendo una terra povera, l’Amiata non aveva certo in passato mercatini natalizi per acquistare regali da scambiarsi sotto l’albero, ma oggi ce ne sono numerosi. I mercati di ogni settimana si trasformano in mercatini natalizi: ce n’è uno a Castel del Piano, ad Abbadia, a Piancastagnaio e un po’ ovunque. Più tipico, il mercatino di Rocchette di Fazio dell’8 dicembre, espressamente natalizio.

Per tutto il periodo di dicembre si prolungano le feste dell’olio e dei Frantoi Aperti, a Seggiano, Cinigiano, San Quirico d’Orcia e a Montecucco.

I prossimi appuntamenti del versante grossetano sono i falò di Petricci (frazione di Semproniano) della vigilia, il Natale Insieme di Arcidosso, il 25 dicembre, le Befanate di Roccalbegna, Saragiolo, Tre Case, Bagnore e Castell’Azzara tra il 5 e il 6 gennaio. Ad Arcidosso è ormai diventato tipico festeggiare il Natale tutti insieme sotto il tendone in piazza, davanti all’albero di Natale. Si mangia e si effettuano i giochi tradizionali: il panforte, la tombola, si danno concerti al teatro degli Unanimi e si fanno anche delle fiaccolate, per celebrare con falò simili a quelli di Abbadia e Santa Fiora le festività. In nessuna casa dell’Amiata si può evitare sotto le feste di giocare a tombola, ma forse più tipico della zona è il gioco del panforte, che consiste nel lanciare un panforte su una tavola. Vince chi lo lancia più lontano. Nel frattempo, il povero panforte si ammollisce sempre più e diventa anche più buono. Il 30 dicembre, a Cellena (altra frazione di Semproniano) si celebra la tradizionale Catasta di buon auspicio, che viene fatta ogni anno più grande di dieci centimetri alla base. La Fiaccolata di Santa Fiora del 30 dicembre, invece, consiste in un corteo di ragazzi che portano le fiaccole accese sulle spalle per bruciarle infine tutte insieme nella piazza principale.

Sul versante senese, da non perdere i seguenti avvenimenti: i presepi di Saragiolo, dal 24 dicembre all’8 gennaio; le Fiaccole di Abbadia, del 24 dicembre; il Concerto di Capodanno della Filarmonica il 31 dicembre ad Abbadia e, il giorno dopo, la benedizione delle Reliquie Storiche; la Festa della Befana a Radicofani il 5 e 6 gennaio e le feste dei Magi a Saragiolo e Abbadia il 6 gennaio, nonché i presepi pianesi. Grande festa di Capodanno in piazza il 31 dicembre a Piancastagnaio: un appuntamento che di anno in anno attrae sempre più visitatori.

Le befanate dell’Amiata

Tra gli spettacoli popolari, quello più diffuso sull’Amiata è senz’altro la Befanata. Questa festa si canta infatti a Roccalbegna, Saragiolo, Tre Case, Bagnore, Semproniano, Castell’Azzara e Marroneto tra il 5 e il 6 gennaio, in quella che ancora Shakespeare, secondo il calendario gregoriano, chiamava la dodicesima notte: la magica notte della invocazione della fertilità; negli ultimi anni si celebra una mascherata del genere anche ad Abbadia San Salvatore. La tradizione forse più forte e più antica è quella di Marroneto, frazione di Santa Fiora.

Qui, il testo del canto di questua, cioè di ricerca e di richiesta di beni materiali, è quello di sempre, con pochissime varianti. Gli attuali befani, befanotti o befanai lo hanno ricevuto dai genitori e dai nonni, insieme alla gestualità, ai tempi e alle modalità di quello che è un vero e proprio spettacolo. Si è perso solo il contesto originario in cui la befanata veniva cantata.

Ritornati dalla Maremma dove si erano trasferiti dopo la castagnatura per ripulire grandi spazi di macchia (si diceva che andavano a “dicioccare”), gli antichi abitanti di Marroneto coglievano l’occasione per festeggiare questo ritorno. Si lasciavano alle spalle mesi duri, durante i quali avevano lavorato faticosamente, nutrendosi solo di farina di castagne. Per questo nei loro canti invocavano il “ciccio”, la carne che finalmente avrebbero potuto mangiare. Se ne andavano in giro vestiti con abiti vecchi e laceri e il volto sporco di fuliggine. La befana ha tutt’oggi una parrucca di lana bianca, la rocca e il fuso per filare; il befano un bastone, cappello e pipa e la barba bianca. Altri personaggi possono apparire in questa gaia combriccola di mostriciattoli: il Panieraio-Corbellaio, detto anche Ciccio Carnevale, dotato di un enorme cesto per accaparrarsi la carne del maiale da poco ucciso, il Gobbo e il Dottore, come in una commedia dell’arte povera. Mentre alcuni befani cantano, altri suonano vari strumenti: fisarmonica, chitarra e clarino o, in passato, organetto e mandolino.

Chi offriva generosamente ai befanotti vino e salsicce, riceveva in cambio gli auguri per l’anno nuovo: uno scialle alle vecchie, un marito alle ragazze, un confetto ai bambini, un nuovo marito alle vedove, il carnevale ai giovanotti e tanta salute per la vigna, le galline e il maiale.

Con l’Epifania terminavano le feste di Natale e cominciava il Carnevale. Il Befano era sulla soglia tra queste due feste, molto simile al Cuccucicciu abbadengo e, come tale, la Befanata non costituiva una semplice occasione di festeggiamenti per i lavoratori della Maremma che ritornavano, ma – come i riti del fuoco – era essa stessa un rito, una celebrazione, una forma apotropaica per attrarre gli influssi benigni sulle campagne e sul bestiame. Nessuno di coloro che riceveva i befani nella sua cucina, infatti, li mandava via senza niente, perché farlo avrebbe significato attrarsi un cattivo auspicio.

Dopo il canto, veniva inscenata una piccola commedia, in cui il befano pestava la befana (che rappresentava pertanto la vecchia stagione destinata a morire, portandosi via tutti i guai) a bastonate: il dottore, visitandola, chiede per lei ai padroni di casa uova, prosciutto, salsiccia e formaggio. Ricevute le offerte, veniva intonato un canto di ringraziamento e la brigata si allontanava.

Per informazioni e per le date aggiornate:
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