13.03.2003
In viaggio
Sono anni che non vado con Francesca da qualche parte.
Siamo a Miami, sono le 8 di sera, e siamo reduci da un’estenuante giornata in aereo. Prima ci siamo sorbiti 2 ore di volo da Roma a Londra. Poi un lunghissimo Londra-Miami, che è durato 9 ore e passa. L’agitazione e l’entusiasmo di questi ultimi giorni hanno lasciato il posto alla stanchezza, tant’è che ora siamo calmi, silenziosi e tranquilli. Aspettiamo con rassegnazione l’ultimo volo, che ci porterà a La Paz, e che non è neanche tanto breve.
Stiamo andando da Carlo, il mio coinquilino ed amico di sempre, che da un anno ormai ha lasciato la Città Eterna per l’America Latina. Se tutto va bene ci viene a prendere all’aeroporto di El Alto domani mattina presto. Dopodiché dovremo smaltire queste infinite trenta ore di viaggio. Buona notte.

14.03.2003
La Paz
La Paz ci ha accolti sotto una pioggia battente. Abbiamo dormito praticamente per tutta la notte, ci siamo svegliati solo quando le hostess della American Airlines (non troppo cortesi) hanno portato da mangiare. Arrivati a destinazione, abbiamo recuperato velocemente le valigie, ed all’uscita abbiamo, con molto piacere, trovato Carlo, che ci è venuti a prendere con un taxi. La città che vediamo, malgrado il cielo grigio e la pioggia, è molto graziosa, circondata da imponenti montagne che colorano la vallata di rosso, marrone e verde.
La casa/ufficio di Carlo si trova in un quartiere di buon livello (Sopocachi), e l’accoglienza che ci riserva è molto gradita. L’altitudine si fa sentire subito: ci gira la testa e non riusciamo a fare due passi senza strisciare dalla fatica con la lingua penzoloni. Carlo – chiaramente – ci fa trovare a casa i rimedi naturali contro il soroche (il mal di montagna), tant’è che ne approfitto subito e mastico foglie di coca fino a sera inoltrata. L’effetto è molto blando, ma quasi immediato e decisamente efficace.
Dormiamo quindi per quattro ore filate, riprendendoci parecchio. I 4.000 metri di altitudine rendono difficile la respirazione anche durante il sonno, ma sopravviviamo senza problemi eccessivi.
Al risveglio, beviamo un mate de coca, facciamo quattro chiacchiere davanti ad un piatto di spaghetti all’amatriciana (cuociono per 20 minuti, qui l’acqua bolle a 80 gradi.), e partiamo tutti insieme verso il Mercato Nero di La Paz. Carlo deve comprare delle cose per l’ufficio, e quindi lo seguiamo volentieri per il nostro primo giro di ricognizione.
Prendiamo un taxi (qui non costano nulla), ed attraversiamo la città con le sue strade continuamente in salita, arrivando presto nell’enorme mercato, che occupa tutto un quartiere.
E’ un labirinto di vicoli e vicoletti, dove si trova proprio di tutto: generi alimentari, bancarelle di abbigliamento, intere strade occupate solo da negozietti di Hi-Fi taroccato (ci viene detto che non esistono marchi originali, qui è tutto imitato alla perfezione). Io decido che per affrontare il viaggio dei giorni seguenti devo procurarmi un paio di scarpe da trekking (sono partito senza), ma rimando l’acquisto a domani, ora non ho proprio né voglia né testa di impegnarmi in un’impresa del genere.
Malgrado la calca impressionante, la gente che occupa il mercato sembra molto pacifica. Nessuno, come nei paesi che ho visitato finora, prende di mira i turisti. Nessuno reclama per un mancato acquisto. sembra quasi di essere in Europa.
Torniamo verso casa di Carlo, però prima passiamo a trovare un suo amico fiorentino, che vive a due isolati. E’ un fricchettone/capellone che vive in Bolivia da 14 anni, senza fare nulla. Sembra l’uomo più felice del Mondo, e vorrei ben vedere.
Chiacchieriamo per un’oretta ed ascoltiamo le sue composizioni musicali, a dire il vero poco incoraggianti. Ma l’atmosfera rilassata e tranquilla fa placidamente scorrere il pomeriggio, e con un altro paio di mate di coca il soroche sembra quasi lontano.
Di sera, dopo una bella doccia, usciamo con un altro amico di Carlo, un cooperante torinese che lavora in una località sperduta nel sud boliviano da svariati anni, ed andiamo a mangiare in una churrasqueria, dove consumiamo una porzione esagerata di carne, accompagnata da una montagna di verdure arrosto.
Durante il pasto ci raggiunge un altro amico (ma quanti italiani ci sono??), che si chiama Carlo anche lui (e che d’ora in poi chiamerò -Carlo 2-), e che lavora anche lui nella cooperazione. Data la scarsa disponibilità di letti a casa di Carlo 1 (il nostro Carlo), dovremo dormire, per queste notti a La Paz, a casa di Carlo 2.
Dopo la lauta cena ci dirigiamo verso un pub, un locale molto carino tutto in legno, con il pavimento ricoperto di ghiaia grezza. Decisamente un bel posto, addirittura trendy e di design per gli standard europei. Certo che a La Paz si sta proprio bene. siamo molto sorpresi dal comfort e dalla tranquillità con cui si può girare di notte. E’ una città sicura che mette molto a proprio agio.
Torniamo a casa presto, non oltre le 23, e trasferiamo gli zaini da casa di Carlo 1 a casa di Carlo 2. Il trasferimento ci costa tre anni di vita (anche se le due case sono a pochissimi isolati), ma con il fiato cortissimo entriamo in una splendida casa, enorme, con un bagno grande come il mio salone. Le finestre offrono un panorama notturno mozzafiato della città. Tutte le strade sono illuminate, e le montagne sono ricoperte da mille luci, che rendono magica la veduta. Sembra quasi che le stelle siano ovunque, sopra e sotto. L’effetto è veramente notevole.
Andiamo a nanna verso l’una. Francesca ed io ci buttiamo nel sacco a pelo e dormiamo profondamente per tutta la notte.

15.03.2003
La Paz
Non mi sveglio tardi. Il Sole fa capolino nella stanza, mi alzo e mi accomodo nel salone, di fronte alla finestra panoramica. C’è molto silenzio in strada, e Carlo 2 è già andato a lavorare. In compenso, di tanto in tanto echeggiano i clacson dei venditori di bombole di gas, che qui passano ogni mezz’ora.
Francesca apre gli occhi verso le 9,30; usciamo quindi alla ricerca di un bar, per una ricca colazione. Troviamo un posto delizioso a poche centinaia di metri, “La Terraza”, e mangiamo per pochi euro delle uova strapazzate, una macedonia di frutta, un toast ed uno yogurt, tanto per non morire di fame.
Raggiungiamo Carlo 1 verso le 11, e con lui ritorniamo nel Mercato Nero in cerca del paio di scarpe da trekking per me. Attraversiamo la bolgia in direzione delle bancarelle che vendono scarpe. Io e Francesca siamo di fuori come due zucchine, un po’ per il soroche, un po’ per l’abbiocco post-cibo, sembriamo due spettri. L’acquisto delle scarpe si rivela più difficile del previsto, non certo perché non ci siano i posti che le vendono (sono centinaia le bancarelle che vendono zapatas), ma perché i negozianti ridono appena dico di cercare scarpe numero 45. Qui la gente è molto più minuta, piccolina, al massimo arrivano alla misura 42. Andiamo bene.
Dopo aver perso qualsiasi speranza ed aver chiesto ad una cinquantina di negozianti, riusciamo – non so come – a trovare delle imitazioni di una marca sconosciuta, numero 44, al costo di 180 Boliviani (circa 22 euro). Esco quindi vittorioso dal mercato con il mio nuovo paio di scarpe, fiero di poter affrontare le condizioni più avverse per i giorni che ci aspettano.
A pranzo andiamo in un ristorante argentino con i due Carli (Carlo 2 ci raggiunge lì), e ci abbuffiamo di carne deliziosa, tenera e succosa, annaffiando il tutto con tre bottiglie di ottimo vino tinto (in quattro). All’effetto del soroche, dobbiamo ora fare fronte anche ai fumi dell’alcool. Il risultato è che prendiamo un taxi fino a casa di Carlo quasi ubriachi (il vino non era tantissimo, ma 4000 metri slm sì.).
Riposiamo e conversiamo piacevolmente per un po’, dopodiché decidiamo di andare a visitare un posto chiamato Valle della Luna, che si trova a pochi minuti da La Paz, ed offre bei panorami in una passeggiata facile e breve.
Scendiamo entrambi di casa, e ci dirigiamo verso la strada dove passano i micros. Aspettiamo solo un paio di minuti prima di salire su quello giusto. Qui i mezzi pubblici sono tantissimi; su ognuno di questi micros lavora un ragazzo (solitamente giovane) che aiuta il guidatore ad effettuare le operazioni di carico/scarico dei passeggeri, si occupa dei biglietti, ed urla a squarciagola il percorso del mezzo a tutti i passanti. Il sistema funziona, funziona anche bene, meglio delle nostre pensiline con i segnali sugli autobus.
In un baleno (meno di venti minuti), siamo a destinazione. Passiamo nei quartieri ricchi della città, vediamo delle case meravigliose e lussuose sparse per tutta la campagna circostante: ville colorate, giardini curati e foltissimi incastonati in scenari montuosi notevoli, che si illuminano di mille colori cangianti nel corso della giornata.
Il paesaggio è davvero bello, imponente ma armonioso, eterogeneo e lineare al tempo stesso.
Quello che ci aspetta nella Valle della Luna supera le previsioni: un’immensa area rocciosa formata da migliaia di guglie calcaree, che danno vita ad una sorta di foresta di pietra. Il sentiero si inerpica, talvolta ripidissimo, tra queste rocce infinite. Gli scorci sono impressionanti, incutono molto rispetto. Sono estasiato dalla potenza delle immagini e dalle mille forme strane della roccia, e per l’ennesima volta capisco quanto abbia bisogno di avvicinarmi alla terra, alle sensazioni primordiali ed alla natura, nelle sue espressioni più imponenti.
Il sentiero è faticoso, ma all’uscita della valle siamo ampiamente ripagati dalle montagne circostanti, che con la luce della sera si sono colorate di viola e verde intenso.
Torniamo quindi, con lo stesso micro, a La Paz da Carlo. Dobbiamo riposare un minimo ed andare a preparare la cena a casa di Carlo 2.
Ceniamo quindi di nuovo tutti insieme. Ci raggiungono anche due ragazze boliviane, una delle quali lavora con Carlo 1. Mi occupo della cena preparando pollo alla cacciatora per tutti con del riso in bianco ed un’ insalata mista. Una cena semplice ma laboriosa: visto che la temperatura di ebollizione è bassa, il pollo cuoce nel doppio del tempo. Passiamo la cena tra chiacchiere piacevoli che vengono fatte in spagnolo. Blatero per tutta la sera nel mio itañol, con risultati a dir poco scoraggianti. ma mi faccio almeno capire. E questo è quello che conta.
Verso le 11 inizio ad abbandonare la serata: tutta la stanchezza di questi due giorni affiora, tanto è che non riesco neanche a seguire le conversazioni degli altri.
Capisco quindi che è il momento di andare a nanna. Anche Francesca mi raggiunge, ed in men che non si dica dormiamo come due neonati.

16.03.2003
La Paz – Oruro – Uyuni
Stamattina mi sveglia Francesca verso le 8,30. Sembra molto attiva. Io accetto la levata volentieri, in fondo abbiamo dormito abbastanza, e poi ho fame. C’è da dire che l’altura mette molta fame, cosa che non ci scompone minimamente, visto che mangiamo in continuazione da quando siamo arrivati.
Ed infatti Carlo 1 ci porta in una delle piazze centrali di La Paz, vicino al mercato, dove ci sono le bancarelle che vendono le famigerate TUCUMANAS.

*** INTERLUDIO ***
Le TUCUMANAS: fagottini fritti molto simili alle samosa/sambusa africane, un po’ più grandi e più ripieni. Si acquistano presso delle bancarelle (lì ci sono le migliori tucumanas) per due o tre Bolivianos. Mordendole si incontrano pezzi di pollo, uova sode, patate, ed altre verdure che non si distinguono molto bene, ma che sono comunque buonissime. Come se non bastasse, le bancarelle mettono a disposizione una vastissima scelta di salse e salsine, piccanti e non. La tucumana, già bella unta di suo, diventa una bomba calorica che emette rivoli di oli, salse e succhi vari. Assolutamente da provare. Di solito le bancarelle vendono anche le SALTEÑAS, che sono come le tucumanas ma cotte al forno e con un po’ meno carne.
*** FINE INTERLUDIO ***

Ci fanno talmente schifo che ne mangiamo due a testa.
Dopo la lauta colazione ci infiliamo nel palazzotto delle Fiere di La Paz, dove si sta svolgendo la fiera dell’artigianato. Raccoglie, su tre piani, una serie di banchi che vendono di tutto: dagli estratti naturali di erbe della foresta amazzonica, ai tessuti di lama ed alpaca. Facciamo acquisti, spendendo cifre irrisorie, ed andiamo a mangiare in un ristorante peruviano, specializzato in pesce, ed il cui piatto più famoso si chiama –ceviche-, pesce crudo marinato, ereditato sicuramente dalla tradizione del sushi giapponese (il Perù è pieno di giapponesi).
Io e Francesca mangiamo gamberoni all’aglio, sono enormi e gustosissimi, carnosi e saporiti. Mangiamo molto in fretta perché alle 3 dobbiamo prendere il bus per Oruro. Inizia il viaggio vero e proprio, l’esplorazione degli altopiani del sud, del Salar de Uyuni, e delle splendide lagune al confine con il Cile. Raggiungiamo quindi il terminal dei bus, e partiamo. Il viaggio di tre ore e mezza da La Paz ad Oruro scorre piacevolmente. Le vedute sono molto suggestive ed interessanti, ed infatti passiamo tutto il tempo a guardare le bellissime montagne.
Ad Oruro prendiamo un taxi e siamo in pochi minuti alla stazione dei treni. Facciamo i biglietti in fretta e prendiamo il treno per Uyuni. Abbiamo due posti in uno dei vagoni di lusso, con sedili larghi e reclinabili, uno stewart che serve caffè, tè e panini. Per godere al massimo di tutti i comfort prenotiamo anche la cena al vagone ristorante, dove per soli tre euro mangiamo della fantastica carne con verdure.
Arriviamo puntuali ad Uyuni (verso le 2 di notte), dove incontriamo Dona Santuza, la gerente di un hostal che ci ha indicato Carlo, che aspetta i turisti alla stazione. Alloggiamo quindi all’Hostal Marith, punto di appoggio di molti giovani turisti come noi, in una stanza molto semplice ma pulita e gradevole, ed in un baleno siamo a letto.

17.03.2003
Uyuni – Salar
Sveglia alle otto. Decidiamo di fare una grassa doccia, visto che per quattro giorni avremo difficoltà oggettive a lavarci decentemente. Dona Santuza prepara una frugale colazione con fette di pane, burro e marmellata, poi inizia a descrivere il tour nel Salar de Uyuni che faremo con l’agenzia convenzionata. Praticamente, da Uyuni ci muoveremo prima verso Nord, in tutto il territorio del Salar, visitando delle comunità locali che ci forniranno l’alloggio per la notte. Dopo il salar, punteremo in direzione sud, verso il confine cileno, dove avremo modo di vedere le meraviglie dell’altopiano e visitare le numerose lagune, i geyser, fino alla mitica ed altissima Laguna Verde, a soli 20 Km dalla frontiera.
Il costo dell’escursione è basso, solo 65 dollari per quattro giorni in jeep, con guida e cuoca a bordo. Con molta calma prepariamo i bagagli, ed il sonno arretrato scompare come per magia dopo l’ennesima masticata anti-soroche.
Uyuni è un paesino molto povero ed abbastanza privo di cose belle da vedere, ma i boliviani riescono a creare un bel clima, allegro e sereno. Sulla via principale di Uyuni passano cholitas dalle lunghe trecce, vecchi acciaccati che camminano col bastone, donne e uomini vestiti all’occidentale, e bambini di tutte le età.
Il popolo boliviano è di un’onestà, gentilezza e semplicità che risultano evidenti in qualunque parola dicano, qualunque gesto compiano. Sono meravigliosi.
Anche se il paesaggio arido e polveroso rende Uyuni un villaggio secco, e talvolta squallido, la sensazione è quella di essere al sicuro, di vivere insomma in mezzo a gente tranquilla ed umile.
Alle 11 arriva la jeep, con altri tre passeggeri a bordo: una ragazza australiana brutta come la fame, un suo amico norvegese, brutto almeno quanto lei, ed un ragazzo olandese coattissimo, molto macho e muscoloso. L’impressione, insomma, non è proprio delle migliori, avremmo preferito di gran lunga un gruppo di ragazzi argentini, o comunque latini. La jeep è stretta e scomoda, ma dopo aver caricato tutto, finalmente partiamo per il nostro tour. Usciamo da Uyuni ed in cinque minuti raggiungiamo il Cimitero dei treni, un’area abbastanza estesa in cui sono ammassate vecchie locomotive arrugginite e vagoni abbandonati. Il terreno è molto arido e pieno di immondizia sparsa in tutte le direzioni. Il luogo è senza dubbio interessante, ma una visita di cinque minuti è più che sufficiente. La desolazione è vivacemente spezzata dalle montagne circostanti, che come sempre arricchiscono il paesaggio con i loro colori e le loro forme, spesso ammorbiditi da bellissime nuvole che sembrano delicatamente coricate sulle cime.
Ma la vera sorpresa è il Salar de Uyuni.
Arriviamo in poco più di mezz’ora in una pianura sconfinata, ricoperta da un bianchissimo strato di sale, che con il calore del Sole diurno forma crepe e crateri di tante forme diverse. Il bianco accecante ed infinito dà l’impressione di essere sollevati da terra, le montagne si riflettono a specchio sul sale creando bellissime isole sospese nel vuoto. L’effetto è meraviglioso.
Il cielo azzurro ed il Sole a picco riscaldano l’aria, e siamo costretti a mettere una crema solare per non bruciare.
All’interno del Salar passiamo un paio d’ore in un’isola incantevole (Isla pescado), che troneggia nel nulla, in mezzo al bianco del sale, con i suoi cactus enormi, che riempiono tutta l’area.
La passeggiata è un po’ faticosa, siamo in fondo sempre a 4.000 metri, ma vale ampiamente la sfacchinata. Mangiamo e lasciamo l’isola verso la comunidad che stasera ci ospiterà. E’ un paesino molto piccolo e povero (si chiama Atulcha), abitato da poche decine di famiglie contadine. La stanza che ci danno per la notte è spoglia, ma alcuni poster affissi alle pareti fanno capire che normalmente è una camera occupata da bambini, e questo ne rende l’aspetto più grazioso. Dopo una mezz’ora di riposo ripartiamo in jeep per visitare delle tombe incaiche, con delle mummie ritrovate nelle caverne delle montagne.
Ci accompagna un contadino della comunità, il proprietario della casa in cui dormiamo. Le sole due caverne che visitiamo – le uniche aperte al pubblico – sono state rese agibili solo due anni fa ai turisti.
Il contadino ci spiega come sono state rinvenute, e come questo sia solo uno dei tanti buchi dove si possono trovare mummie. Lui è molto simpatico e gentile, e spiega ogni singolo dettaglio con molta cura, raccontando anche molti episodi di quando era chico e passava con rispetto e circospezione davanti alle tombe. Io sono molto preso dalla semplicità e dalla gentilezza dell’uomo, mi ricorda alcuni dei vecchi saggi che mi parlavano quando ero bambino nel paese natale di mio padre, in Abruzzo.
Lui è molto curioso, chiede di noi, di Roma, della Piazza S. Pietro. Sgrana gli occhi ogni volta che gli spieghiamo qualcosa, e dice di voler fuggire, prima o poi, da quell’isolamento, per vedere una città, con le strade, le luci, “los semaforos”.
Torniamo e ceniamo con i nordici, che ci stanno parecchio antipatici, e poi io e Francesca ci ficchiamo a letto prestissimo.

18.03.2003
Salar – Altopiano – Lagune
Sveglia alle 6,30 e veloce desayuno. Oggi passeremo praticamente tutto il giorno in jeep.
Per raggiungere la zona delle lagune attraversiamo una pianura vastissima ricoperta di fango. Facciamo moltissimi chilometri senza incontrare anima viva, e rischiamo di impantanarci a più riprese, ma alla fine riusciamo a raggiungere la prima piccola laguna, con tanto di fenicotteri rosa. L’area desertica prosegue a perdita d’occhio attorno alla laguna, è un paesaggio molto suggestivo, pieno di zolle erbose sparse per tutto il terreno, secche, dure e pungenti come mazzi di aghi.
Mangiamo sulla riva, c’è una pace ed un silenzio assoluto, si sentono solo i fenicotteri gracchiare. Le montagne sono innevate, e le nuvole spesse formano, con i riflessi del sole, delle macchie colorate su tutti i pendii. Non ho mai visitato un posto così isolato, così vasto e desertico.
Proseguiamo con la jeep a velocità record, avvicinandoci sempre più al confine con il Cile. Le montagne cambiano colore, e l’altopiano si trasforma in un’enorme distesa di ghiaia rosa. Comincia anche a tirare un discreto vento, e la temperatura scende di molto, in fondo siamo sempre a 4.500 metri. Incrociamo altre due piccole lagune perse nell’infinito nulla, poi raggiungiamo un’area rocciosa, sempre dai colori strani, sulle cui pietre sbucano ogni tanto dei conigli gialli (qui le chiamano viscachas), con la coda lunga e con i baffi neri alla messicana. Sono molto buffi, curioso come riescano a sopravvivere in questo posto privo di vegetazione.
Prima di arrivare a destinazione (nella Laguna Colorada), incrociamo il famoso Arbol de Pedra, una roccia erosa dagli anni e dal vento a forma di albero. Rispetto a quanto abbiamo visto finora è abbastanza deludente, ed infatti facciamo tre foto e ripartiamo.
Arriviamo nella Laguna Colorada verso le 17. Tira un vento allucinante, fa molto freddo. Il rifugio dove dormiamo è una topaia/dormitorio con camere da 6/7 letti, con coperte e lenzuola sporchi, che puzzano di piedi e di capra. L’elettricità viene erogata dalle 19 alle 21, non esiste acqua corrente, i bagni sono in condizioni inenarrabili. Dopotutto, siamo in mezzo al nulla, e per poter godere delle meraviglie della zona dobbiamo adattarci a quello che passa l’organizzazione boliviana.
Facciamo un giro a piedi intorno al lago, e per raggiungere la riva siamo costretti a passare in una zona fangosa in cui ci impantaniamo pesantemente nelle molli zolle intrise di sale. Le scarpe diventano bianche fino alla caviglia.
Il freddo è intensissimo, e siamo a quasi 5.000 metri. Durante la passeggiata le raffiche di vento gelano la testa, e l’altitudine si fa sentire. Rientro in camera che sono uno straccio.
Ceniamo con i ragazzi. Stasera spaghetti al pomodoro (ketchup) scotti e carichi di cipolla. C’è solo quello, e praticamente non mangio. Cerchiamo di socializzare con un po’ di conversazione e giocando a carte con delle regole che ci spiega l’ australiana. Gli sforzi li facciamo, ma proprio non riescono a dire o fare cose simpatiche. L’unico che si salva è l’olandese, con cui almeno si riesce ad intavolare un discorso.
Andiamo a dormire alle 9, con sacco a pelo ed altre coperte, in quella stanza fetida e gelida.

19.03.2003
Geyser, Laguna Verde e proseguimento per Alota
La sveglia è alle 4, ma io riesco a svegliarmi alle 2,30 con un terribile mal di testa. Esordisco con un paio di moccoli mattutini: ho passato una notte orribile, svegliandomi a più riprese ed in preda a brutti pensieri. Il “sellerone” norvegese, tra le altre cose, ha deliziato gli astanti rigirandosi senza tregua nel letto metallico, che ovviamente non ha smesso di cigolare un secondo. Fa molto freddo, e con la luce delle candele dobbiamo ricomporre la valigia e tutti gli altri oggetti in tempo per uscire alle 5. L’ umore, come ho detto, è pessimo, e mi diverte notare che anche Francesca è più o meno nelle stesse condizioni.
Partiamo dalla laguna e raggiungiamo in poco tempo la zona dei geyser. La scena è spettacolare, fortissima: delle grosse nubi di vapore si alzano dalle pozze piene di fango bollente, creando un’ atmosfera spettrale e surreale.
La luna, nitidissima, illumina la vallata dall’ alto, mentre all’ orizzonte compaiono le prime luci dell’ alba.
Il malumore viene sedato lentamente dallo stupore e dalla meraviglia, anche se il freddo è ancora insopportabile. Dalla zona dei geyser raggiungiamo delle pozze di acqua calda. Il sole si è alzato nel cielo e comincia a scaldare l’ aria, e malgrado la temperatura saltiamo nell’ acqua in un baleno.
E’ calda, piacevole, trasparente e non maleodorante come normalmente sono le acque termali.
Vale molto più di una doccia bollente: passa il mal di testa e l’ irritazione, e torna la voglia di fare e di vedere.
Facciamo colazione verso le 6, dopo esserci rivestiti, e partiamo alla volta dell’ ultima laguna, la Laguna Verde, che si trova a pochissimi chilometri dal Cile.
Ancora una volta, quello che vediamo rasenta la fantascienza: la laguna, molto estesa, è circondata da splendide montagne che si riflettono a specchio sull’ acqua, che offre tonalità verdastre e blu.
Non si vede nient’ altro che roccia ed acqua, non ci sono uccelli e nessun’ altra forma di vita. L’ acqua della laguna è in realtà un miscuglio di acidi e veleni, e la colorazione è data dall’ arsenico, presente in grosse quantità. E finalmente ci liberiamo dei due rompico**ioni, l’ australiana ed il norvegese, che proseguono con la nostra jeep per il Cile. Io, Francesca, e l’ olandese ci trasferiamo su un’ altra macchina, dove troviamo una coppia di olandesi ed un ragazzo australiano. Per lo meno sono persone normali, riusciamo pertanto a fare conversazione ed a parlare di cose decenti…
Comincia quindi il ritorno verso Uyuni, con la nuova guida, un uomo sulla cinquantina, e la cuoca, sua moglie. Il tizio guida a 30 km/h, e frena davanti a qualsiasi buca od asperità del terreno; capiamo quindi fin d’ ora che il viaggio sarà lunghissimo ed estenuante. La strada che facciamo non è quella dell’ andata. Il paesaggio è molto più arido ed anonimo. Io comincio anche ad annoiarmi un po’ , sono nervoso, voglio un letto decente, una doccia ed un telefono… i piccoli capricci di un turista affetto da occidentalite, fortunatamente agli stadi iniziali. Facciamo un paio di pause presso altrettante comunidades, dopodiché ci dirigiamo verso Alota, dove passeremo la notte. Anche qui, ci mettono a disposizione una stanza-dormitorio con 6 letti puzzolenti e corti. Anche qui, la luce elettrica viene erogata dalle 19 alle 21. La cuoca serve la cena alle 7, e passiamo la serata con gli altri ragazzi giocando a carte.

20.03.2003
Uyuni – Potosì
Giornata assolutamente anonima e noiosa. Sveglia alle 6,30, desayuno e partenza per Uyuni. Il tour è finito, finalmente. Non ne potevo più. Sulla strada incrociamo un altro paio di comunità, tra cui San Cristobal, un posto fatto di case prefabbricate dal tetto in lamiera. Devo dire che la desolazione è proprio tanta, cominciano a mettermi tristezza questi paesini sperduti nel nulla, con quella gente umile, dal sorriso buono e semplice, costretta a vivere in condizioni allucinanti. Sono comunità che non esercitano neanche troppo fascino su di me: le trovo tristi, squallide, senza nulla di interessante se non la popolazione locale, che è e rimane splendida.
Siamo ad Uyuni verso le 2 di pomeriggio. Prendiamo una camera, sempre all’ Hostal Marith, da Dona Santuza, ma solo per il pomeriggio, visto che alle 19 abbiamo il bus per Potosì. Finalmente riesco a chiudermi in un internet café, scrivere agli amici, rispondere ai tanti messaggi ricevuti. Poi di nuovo, a comunicare con l’ Italia: chiamo mio padre, Pier, e mio fratello. Mi sento molto meglio.
Torno all’ Hostal e mi faccio una doccia di due ore. Lustri, puliti e profumati, ci muoviamo velocemente verso il terminal dei bus in taxi (mentre fuori si scatena un temporale degno di questa latitudine tropicale). Il bus per Potosì è piccolo e stretto, pieno di gente. I boliviani sul bus sono carichi di scatole, coperte, stracci e ceste che mettono ovunque, restringendo il già esiguo spazio a disposizione. C’ è un odore infernale di lama e di foglie di coca, odore che – scoprirò più in là – caratterizza tutte le cholitas.
Il viaggio dura moltissimo, più di otto ore (contro le sei dichiarate), per le pessime condizioni della strada dovute al temporale di cui sopra. Arriviamo quindi a Potosì verso le 3,30. Tempo di scaricare i bagagli ed andiamo in un ostello minuscolo (il Residencial Felcar), un posto molto essenziale, e con stanze freddissime. Ci addormentiamo alle 4. La voglia di smadonnare è tantissima, ma domani è un altro giorno.

21.03.2003
Potosì
Mi sveglia Francesca verso le 8. Ho dormito poco, ma non sono eccessivamente stanco. L’ ostello non è male: c’ è un cortiletto interno invaso dai fiori, dove facciamo colazione.
Francesca si stranisce non poco con il gestore dell’ albergo, che a più riprese le chiede di saldare il conto della stanza entro le 12. Per non avere problemi e tagliare la testa al toro, decidiamo quindi di pagare per un’ altra notte – costa solo 25 boliviani, circa 3 euro – e di lasciare i bagagli in camera, così da poter girare per Potosì con tutta calma.
Mangiamo, usciamo e ci dirigiamo subito verso il terminale degli autobus, dove prenotiamo un mega bus di lusso per La Paz, che parte stasera stessa alle 20 ed arriva a destinazione alle 6,30 di mattina. Abbiamo quindi tutta la giornata per passeggiare placidamente per la città.
Potosì è molto carina: moderna, ricca, piena di monumenti e di abitazioni dell’ era coloniale. C’ è molta gente in giro, tanti negozi, bancarelle, uffici, ed un’ infinità di cartolerie e di copisterie. E’ la città dei notai e degli avvocati, prima città in Bolivia per produzione di materiale di cancelleria (questo ce l’ ha spiegato Carlo quando eravamo a La Paz).
Andiamo dritti al mercato centrale, che si sviluppa anche questo su molte stradine attorno ad una piazza. Potosì è anche la città boliviana dove si mangiano le migliori tucumanas: di fronte al mercato campeggia un cartello con la scritta “Tucumanas especiales”. Ci fermiamo un attimo e ne mangiamo un paio, tanto per dare un rinforzino alla colazione.
Passeggiamo ancora per un po’ , e poi entriamo in un ristorante consigliatoci da Carlo. Dopo tutti questi giorni, finalmente mangiamo in abbondanza: filetto ai funghi con contorno di patate con insalata io, un grande churrasco con un’ enorme porzione di verdure Francesca. Il tutto per i soliti 3 euro a testa. Nel ristorante ne approfittiamo per guardare in TV le notizie dal Mondo: ieri è scoppiata la guerra in Iraq, e le immagini fanno passare l’appetito. Al contrario di quanto accade talvolta nel nostro paese, i servizi che passano in TV sono tutti antiamericani, esplicitamente schierati contro la guerra. Un servizio spiega come a La Paz, ieri, si sia svolta una manifestazione di protesta anti-USA, e nel video appare una vecchia cholita che, con il pugno chiuso, urla “el pueblo, unido, jamas sera vencido“. Decisamente un popolo diverso dal nostro…
Usciamo e ci dirigiamo verso il mercato artigianale della città. Troviamo un sacco di negozietti che vendono tessuti, borse, cappelli, oggetti in terracotta ed in legno. Per pochi bolivianos, anche oggi facciamo il pieno di roba da portare a Roma. Passiamo anche per delle bancarelle che vendono oggetti in argento – dopotutto Potosì è la città delle grandi miniere d’ argento – e compriamo qualche piccolo gioiellino artigianale. Contenti e soddisfatti, ci appropinquiamo verso l’ ostello alle 16,30, chiudendoci in camera per riposare. Ci sdraiamo sul letto, leggiamo e scriviamo fino alle 19. Un po’ di riposo ci sta bene. Ci muoviamo quindi verso il terminal: alle 20 parte il bus per La Paz. E’ effettivamente grandissimo, con sedili spaziosissimi ed un comodo poggia piedi, che in teoria dovrebbe consentire di dormire per tutta la durata del viaggio. I primi chilometri del tragitto scorrono abbastanza tranquilli, e verso le 21,30 facciamo una prima sosta, per fare pipì e mangiare. La fame mi fa compiere il primo grande errore del viaggio: entro in una catapecchia gestita da cholitas e, per 4 boliviani (mezzo euro), mangiamo sia io sia Francesca. Lei prende una leggera zuppa ai cereali, io invece prendo il secondo: un piatto abbastanza robusto con un pezzo di carne al sugo, duro come un pezzo di coda alla vaccinara mal cotto, con contorno di patate in umido ed una buona quantità di cipolle crude. Inutile dire che, appena rimetto piede in autobus, inizio ad avvertire delle fitte allo stomaco… ci metterà un po’ a scendere il tutto… E finalmente dormiamo.
All’ 1,30 però mi sveglio. L’ autobus ha guadato un corso d’ acqua ed è affondato nella melma. E’ piovuto molto ieri, e la strada sterrata e piena di buche non ha retto ed è divenuta un enorme pantano. Attorno al bus ci sono altri pullman, camion ed automobili, tutti bloccati nella melma. Il nostro autista tenta invano di avanzare, e restiamo fermi per almeno un paio d’ ore…

** INTERLUDIO **
Dal diario di Francesca:
“VIAGGIO IN CAMBUS”

Il bus per La Paz lo abbiamo scelto senza badare a spese, 50 boliviani per due posti nel Cambus, con sedili reclinabili al massimo, distanti tra loro e con un sostegno per stendere le gambe. Insomma, 10 ore di viaggio che intendevo passare a dormire come un bimbo, e che apettavo con ansia dopo la burrascosa e stancante notte precedente. Già quasi subito, la dichiarazione di Carlo circa le condizioni della strada (asfaltata, secondo lui) si rivela inesatta, ma ormai alla guida nel fango ci siamo abituati e non ci si fa più caso; approfittando dei comodi sedili mi addormento dolosamente. Quando riapro gli occhi mi rendo conto, anzi – me lo dice Maurizio, che la tranquillità dell’ ultima ora e mezza di sonno non è dovuta all’ abitudine alla fanga, bensì al fatto che il cambus è fermo, impantanato. Una boliviana di un metro e mezzo urla convocando tutti gli uomini degni di questo nome (“caballeros… sin caballos!”) giù dal pullman, per spingerlo.
Scendo anche io per rendermi conto della situazione e – affondando subito nella guazza – vedo il nostro bestione inclinato con le ruote destre seminascoste nel fango. Considerando che il bus è alto più di un metro e mezzo da terra e che le ruote sono grosse più o meno come me, rimango impressionata, ed acquisisco due certezze: (1) non ce la faremo mai a spingerlo fuori, (2) resteremo qui tutta la notte.
Voltandomi, vedo però che siamo in buona compagnia: dietro a noi, a pochi metri, c’ è il fiume che abbiamo appena guadato, con almeno altri tre mezzi – tra camion e pullman – impantanati. Il via vai di gente è impressionante, non ci siamo solo noi, ci sono anche bus e camion bloccati nella direzione opposta, a fari spenti ed apparentemente abbandonati, i cui occupanti sono scesi per aiutare o si sono messi a dormire, rassegnati (come me) a passare qui la notte.
Anziché stranirmi mi diverto a girare tra i mezzi, curiosa di vedere come questa gente, evidentemente avvezza a fronteggiare simili situazioni, si caverà dall’ impasse.
Esortati dalle perentorie istruzioni della boliviana, diversi uomini di buona volontà – tra cui Maurizio – si dispongono in due file dietro al bus e cominciano a spingere coordinati con l’ autista. Il bus si muove, finalmente, ma fatti pochi metri sorge un problema: il bestione sta scivolando contro i due mezzi fermi nella direzione opposta.
Via di corsa quindi da lì dietro, il bus rincula per fermarsi nelle buche fatte in precedenza. Si cercano allora i relativi autisti e si guidano nelle faticose manovre di avanzamento (prima uno e poi l’ altro) dei mezzi, per evitare lo scontro che avrebbe peggiorato le cose.
Reso “libero” il campo, con i medesimi sforzi di prima si riesce a far uscire il bus dalla fossa (ma non scatta l’ applauso!), si risale più o meno velocemente tutti sopra (dopo una attenta pulizia delle scarpe perché il bus è di lusso). I primi minuti di cammino stiamo un po’ tutti attenti a come si evolve la traversata, poi ci si rilassa e ognuno torna al proprio dormiveglia sballottato. Ma è un rilassamento prematuro, perché quasi subito il bus si ferma: stavolta non siamo noi, ma c’ è un cambus come il nostro (quante ore sono che è lì?) che è completamente piegato su un fianco ed appoggiato alla parete destra della strada (che è una montagna di fango, ovviamente). L’ aiutante scatta subito fuori in ricognizione (o come rappresentante dei nuovi venuti?), si spengono i motori e l’ immagine triste del pachiderma accasciato su un fianco, come se fosse ferito, mi dà la certezza che passeremo qui tutta la notte sul serio, stavolta. C’ è di buono che qui siamo molti di più, è evidente che questo punto critico sta mietendo impantanati già dal pomeriggio, ci sono molti più mezzi fermi in entrambe le direzioni, e tanta di quella gente in giro che sembra una festa di paese. Nel buio più totale l’ illuminazione ad altezza uomo dei fari rende ancora più surreale la scena, come se non fosse vera. Sporgendomi dal finestrino noto la soluzione (probabilmente l’ ennesima) che hanno deciso di adottare: una serie di uomini tenta di trainare fuori dal guado il bus con una corda attaccata sopra la cabina dell’ autista, e ovviamente quest’ ultimo fa la sua parte al volante. Nella mia incredulità il bestione comincia a muoversi e scivolare in avanti, aumenta suo malgrado la velocità e per effetto degli uomini che tirano da davanti comincia a mettersi di traverso: “così siamo a posto e non passa più nessuno”, penso io, ma proprio nel rush finale, forse per l’ abilità dell’ autista o forse per il contrario, l’ animale scoda, sbatte violentemente il lato posteriore contro la parete di fango su cui giaceva e si raddrizza – è il caso di dirlo – di botto!
Al rumore sordo della crocca i più ammutoliscono (i nostri si sporgono dal finestrino per vedere!), finchè non risulta evidente il lieto fine. Il bus riprende lentamente il suo cammino, noi ci accodiamo passando davanti agli altri mezzi e ai relativi occupanti. L’ ultimo motivo di apprensione deriva dal fatto che – dovendo passare precisamente nello stesso punto del nostro predecessore, sembrava matematico che anche noi ci adagiassimo sulla parete (dalla parte mia, per giunta), ma mentre mi preparavo per attutire il colpo sul vetro, il nostro abile autista ha superato la difficoltà. D’ altra parte, ormai erano a disposizione uomini e tecniche per aiutare anche noi, e quindi la preoccupazione era relativa.
Mentre andavamo via mi sfilavano davanti agli occhi gli infiniti pullman e camion fermi, e se da un lato mi chiedevo se e quando mai sarebbero arrivati a destinazione, dall’ altro pensavo che tanto – vista la quantità di mezzi impantanati lungo il percorso dietro di noi – di certo gli occupanti non si sarebbero annoiati.
Eh sì, ho avuto la netta sensazione di non essere stata l’ unica, questa notte, a essermi divertita!
** FINE INTERLUDIO **

Siamo entrambi divertiti dall’ avventura e dallo spettacolo offerto. In fondo del ritardo non ci frega nulla, e dal modo tranquillo in cui i boliviani reagiscono, è evidente che qui la natura scandisce i ritmi di tutti gli avvenimenti. Contro una frana, un diluvio, o nelle condizioni climatiche più avverse, c’ è ben poco da fare. Si riparte dopo tutte queste attività, ed in poco tempo ci si riaddormenta.

22.03.2003
La Paz – Coroico
Arriviamo a La Paz verso le 10. Riprendiamo i bagagli, e velocemente raggiungiamo Carlo che, conoscendo il paese, non era affatto preoccupato dal ritardo del pullman. E finalmente ci rifacciamo una sana e lunga doccia, scrostandoci di dosso tutta la sporcizia e la stanchezza fisica di questi giorni. Mangiamo una tucumana dopo aver fatto colazione, ed insieme a Carlo 2 andiamo tutti e quattro a prendere il micro per le Yungas, che parte alle 15.
Il tratto che da La Paz porta a Coroico è tristemente famoso in tutto il mondo: la carretera de la muerte. Il percorso è di circa un’ ottantina di chilometri, ma è una piccola e stretta stradina scavata sul fianco della montagna, che si sviluppa a picco sulle vallate andine, con strapiombi di 600 metri che danno sul nulla.
Secondo l’ ONU è la strada più pericolosa del mondo: ogni 2 settimane un veicolo precipita con tutto il suo carico – umano e non – verso l’ infinito vuoto. Ovviamente siamo tutti elettrizzati dall’ attesa, facciamo battute sulla caduta, cercando di sdrammatizzare e placare la tensione. La fitta nebbia presente sulla strada impedisce di avere una visione nitida dello strapiombo, ma la discesa è veramente da brivido. Il piccolo micro percorre la strada sul lato esterno, verso il vuoto, ed ogni tanto la nebbia si dirada offrendo uno scorcio della lontanissima vallata.
A mano a mano che scendiamo verso altitudini più umane (Coroico è a circa 1.500 metri), cambia la temperatura, ma soprattutto cambia radicalmente la vegetazione: le piante diventano sempre più grandi e folte, cominciano a comparire i primi fiori, e l’ autobus passa spesso sotto delle piccole cascate che affiorano da rigogliosi boschetti fitti di vegetazione.
Altro che strada pericolosa, è in realtà la strada più meravigliosa del mondo. E’ tutto verde, in qualunque direzione, gli alberi sono altissimi, ci sono corsi d’ acqua ovunque, siamo immersi in una bellissima foresta ricolma di vita e di colore. La strada però è molto sdrucciolevole e fangosa, infatti a poco più della metà del percorso ci fermiamo dietro ad una lunga coda di veicoli a causa di una grossa frana, che ha bloccato il traffico in entrambi i sensi. Anche in questo caso nessuno sembra sconvolgersi. Scendiamo tutti dal micro per “ammirare” il fantastico panorama ed osservare le ruspe che rimuovono la terra caduta sulla strada. In circa un’ ora, tutti i veicoli provenienti da Coroico (che hanno la precedenza su quelli provenienti da La Paz) riescono a passare oltre la frana. Anche noi risaliamo sul micro e continuiamo la discesa. Arriviamo a Coroico dopo un viaggio di quattro ore pulite.
Il paesino è una ridentissima comunità che sorge su una collina rigogliosa e ricolma di fiori selvatici. Attorno alle case crescono felci enormi, ficus, banani, papaie e palme, ed io sono felicissimo di trovarmi in tutto quel verde, in quella fantastica natura, in un contesto così rassicurante e fertile.
Abbiamo una prenotazione presso un alberghetto fuori città, un complesso di cottage rustici immersi nei giardini tropicali. Per arrivare all’ hostal siamo costretti a chiamare la reception ed a farci venire a prendere con un fuoristrada sulla piazza principale: la strada è in salita, totalmente sconnessa, e bisogna percorrere 3 km prima di arrivare. Andiamo, non senza prima consumare una ricchissima cena in un ristorante che conosce Carlo 1, che intrattiene simpatiche conversazioni con il proprietario. L’ ostello è effettivamente sperduto nel nulla, isolato dal paese ed abbastanza lontano da rendere difficili tutti gli spostamenti a piedi. La sistemazione, però, è decisamente comoda e suggestiva: ci danno una casetta a due piani, con un soppalco in legno grezzo, un minuscolo angolo cottura con tavolo, e quattro letti morbidi, comodi e pulitissimi.
All’ esterno c’ è un giardino con alberi altissimi, piante di ficus, arbusti carichi di fiori e felci smisurate.
Il bagno è una piccola costruzione in muratura con una doccia dipinta di blu ed una porticina per il WC, circondata da molte piante anch’ essa.
Insomma, non siamo molto contenti di non poter uscire, ma godiamo della pace e della bellezza in cui ci troviamo. I ragazzi comprano tre bottiglie di vino cileno, e chiacchieriamo tutta la sera, con i mille rumori della foresta. Grilli, uccelli e fruscii a iosa, ininterrottamente.
Finalmente un letto più che comodo, una casa curata e carina, finalmente una notte senza sveglia.

23.03.2003
Coroico
Dormo come un sasso, mi sveglio alle 9,30 per andare in bagno. C’ è già moltissima luce, e quando metto il naso fuori casa vedo due grossi uccelli neri dal becco giallo e la cresta blu sostare sul tavolo del giardino, accanto ai residui della serata. Appena mi vedono spiccano il volo, ed io mi ritrovo stupito tra mille rumori di uccelli ed altri animaletti sparsi nelle vicinanze. Gli altri aprono gli occhi poco dopo, facendo anche loro molti apprezzamenti sulla situazione mattutina, che mette di buon umore già dopo il risveglio.
Facciamo colazione, e decidiamo di cambiare albergo, preferendo una sistemazione in città, vicino alla piazza centrale di Coroico. Una volta tornati in paese, troviamo una splendida stanza al “Bella Vista Hotel”, sicuramente meno originale del cottage della scorsa notte, ma spaziosa, pulita e profumata. Per 6 euro a testa abbiamo una camera dotata di un’ enorme finestra panoramica, che offre vedute meravigliose della vallata sottostante e delle montagne che circondano Coroico. Di tanto in tanto avvistiamo degli splendidi falchi che sorvolano l’ area in cerca di cibo. Alcuni passano a pochi metri dalla finestra.
L’ albergo dispone di una piscina coperta, ma offre anche accesso gratuito alla piscina comunale del paese, dove decidiamo subito di tuffarci e prendere il sole. Non c’ è altro da fare: a Coroico ci si riposa, si dorme, si mangia.
Alle 16 i due Carli ci abbandonano, visto che domani devono lavorare. Francesca ed io, prima ci concediamo una grassa dormita di un paio d’ ore, poi decidiamo di andare a bere qualcosa in uno dei pub attorno alla piazza, specializzato in cucina messicana, dove alla fine ceniamo.
Curiosi gli altri avventori del pub: un gruppo di ragazzi slavi (almeno così capiamo, ma potrebbero essere russi) accompagnati da un ragazzo indio – probabilmente boliviano – che conversa con loro alternando russo e spagnolo. Bevono come spugne tutta la sera. Noi ci limitiamo ad un semplice cocktail, ma abbondiamo con la cena, dopodiché verso mezzanotte decidiamo di tornare in camera e dormire.

24.03.2003
Coroico
Dormiamo profondamente tutta la notte, nel nostro comodo letto, svegliandoci alle 9,30 con il sole. La vista dal finestrone è veramente suggestiva. La vallata è rigurgitante di colore, e numerosi falchi (ne contiamo almeno 5) volano in alto per la colazione. Con molta calma, anche noi usciamo a procacciarci il cibo, e consumiamo un lauto desayuno in un locale (il Backstube) gestito da tedeschi.
Coroico è piena di tedeschi, figli di ariane persone rifugiatesi in Bolivia. Probabilmente si tratta di ex nazisti che si sono trasferiti qui dopo la guerra ed hanno messo su famiglia, infatti ci sono un sacco di bambini dai lineamenti andini, ma biondi con gli occhi azzurri.
Francesca ipotizza una connivenza tra i narcotrafficanti del posto ed i ricchi crucchi sfuggiti all’ epurazione in Europa, e la cosa – effettivamente probabile – si respira in tutto il villaggio, dove le case più belle e più ricche sono di proprietà di personaggi decisamente europei. Carlo 1 poi ci spiegherà che la zona è abitata da molti cooperanti tedeschi arrivati a Coroico negli anni ‘ 70… due interpretazioni distinte, ma secondo me in qualche modo collegate.
Oggi manca l’ elettricità in tutto il paese, e in albergo ci dicono che sarà ripristinata verso le 17. Questo rende impossibile fare telefonate o inviare mail… pazienza, ci penseremo domani a La Paz. Con lo zainetto in spalla, ed il costume indosso, partiamo da Coroico per una delle mini escursioni tra le montagne. È la più facile quella che scegliamo, una gita verso le cascate di acqua sorgiva che alimentano gli acquedotti locali.
Il sole a picco brucia, rendendo difficile la già faticosa camminata in salita, però tira un bel venticello che sicuramente aiuta. Il sentiero è facile, ben indicato e largo.
In mezzo al nulla vediamo, ad un certo punto, un turista che ci segue e ci raggiunge, probabilmente anche lui in cerca delle cascate. Gli chiediamo se conosce la strada, e stupidamente lo seguiamo fuori dal sentiero, verso la cima di una collina ripida e visibilmente fuori percorso.
Il cretino dapprima si dice sicuro di quella scorciatoia (sembra un boliviano di La Paz, quindi gli crediamo), ma dopo venti minuti di scarpinata dura e faticosa ammette di aver sbagliato strada…
Torniamo sui nostri passi e riprendiamo il sentiero principale, ma dopo un po’ il cammino ci viene sbarrato da un’ intera famiglia di cavalli, che passa placidamente il tempo a brucare l’ erba della montagna. Non c’ è modo di evitarli. Il tragitto è l’ unico possibile, non possiamo risalire le colline, ed oltretutto sono proprio tanti, passato il primo dovremmo superarne altri sette, ed alcuni sono decisamente grossi. Non sappiamo cosa fare. Le cascate sono ancora lontane (ci avevano assicurato 1 ore di percorso, ma ne sono passate già tre…), non osiamo avvicinarci troppo ai cavalli, che non si muovono di un centimetro. Non vedendo altri sentieri percorribili, da bravi italiani poco avvezzi all’ avventura decidiamo di tornare indietro, accaldati ed a bocca asciutta, accontentandoci di questa breve passeggiata tra le montagne, incompleta ma ugualmente faticosissima. Ci buttiamo in piscina, alla faccia del trekking e delle escursioni, e passiamo un bel po’ di tempo senza far niente, prima della cena.

25.03.2003
Coroico – La Paz
Oggi si torna a La Paz. Il micro parte alle 7, pieno di gente come al solito. Non è un veicolo piccolo come quello dell’ andata, quindi la mitica strada la faremo con un po’ di paura in più. Ci rassicura il guidatore: il micro è “medianito, ni grande ni chiquito”, quindi partiamo di buon grado.
Le nebbie delle vallate circostanti non si sono ancora diradate, e le cime delle colline sono bellissime, sembrano avvolte nell’ ovatta. Scattiamo entrambi le ultime fotografie.
Nello stesso punto in cui avevamo trovato la frana tre giorni fa, il bus si ferma in attesa del suo turno. Non hanno ancora spalato tutta la terra, ma in tre giorni sicuramente si sono organizzati, e l’ attesa non è poi così lunga.
Il nostro guidatore è visibilmente sciolto e tranquillo, forse anche troppo: quando è il nostro turno, il terreno fangoso e smottato ci fa scivolare, proprio verso il baratro. Per la prima volta da quando siamo arrivati in Bolivia, leggiamo lo sgomento e la paura negli occhi dei viaggiatori: una delle ruote del micro è a pelo sul nulla, e sembra che lo sterzo si rifiuti di obbedire alle svolte dell’ autista (che in questa manovra ci sembra anche un po’ ubriaco, a dire il vero).
Fortunatamente passiamo incolumi, non senza bestemmie, moccoli e parole non proprio dolci. Ci siamo molto spaventati.
E siamo finalmente a La Paz dopo 3 ore e mezza.
Questa è l’ultima giornata di viaggio. Domani si riparte alle 5 di mattina.
Ne approfittiamo per andare a fare gli ultimi a acquisti, in Calle Sagarnaga, una via del centro piena di negozietti, e per mangiare l’ ultima tucumana… mi mancheranno le tucumanas.
Per la sera, Carlo 1 ci ha organizzato una notte bianca. Prima andremo al ristorate peruviano a mangiare ceviche, poi in un locale dove fanno musica dal vivo. Le intenzioni son quelle di farci arrivare all’ ora di partenza senza dormire, e noi accettiamo di buon grado: in fondo amiamo lo spirito di iniziativa di Carlo. In serata ci raggiunge Pilar, una ragazza paceña molto, molto carina, con cui Carlo (che non ha perso tempo) ha una relazione. E’ lei che ci accompagna, dopo cena, in un locale dove ascolteremo alcuni suoi amici che fanno cover degli Heroes del Silencio, che qui in Sud America sono dei miti viventi…
Verso le 2 decidiamo di abbandonare l’ idea della notte bianca, e torniamo nella nostra stanza (da Carlo 2) per impacchettare le ultime cose e chiudere i bagagli.
E’ finita. Dormiamo un paio d’ ore e verso le 4 scendiamo in strada in cerca di un taxi.

Ci aspetta un lungo viaggio fino a Roma.