Prologo: Il fascino del mistero e dell’isolamento di questa lontana terra mi aveva attratto sin da piccolo ma non avrei mai immaginato un giorno di calpestare il suo suolo…ed invece… In effetti bisogna avere delle forti ragioni romantico-culturali per arrivare in questa remota isola poichè è veramente lontana da tutto ! E’ raggiungibile solo da Tahiti e da Santiago del Cile tramite voli due volte alla settimana della Lan Chile che hanno una durata di 5-6 ore. In genere il soggiorno non supera i 3-4 giorni, più che sufficienti per la visita completa dell’isola. Per “capire” meglio però lo “spirito” del luogo e dei suoi abitanti (circa 2000) consiglio calorosamente di “vivere” prima un pò l’altra Polinesia, quella canonica del sole e delle spiagge bianche tropicali (cercando di essere meno turisti e più viaggiatori) per permettere di acquisire ed assorbire un poco di cultura Polinesiana.

Andare infatti all’Isola di Pasqua semplicemente dopo aver letto un libro o peggio dopo aver visto il famoso film “Rapa Nui” equivarrebbe probabilmente a rimanere delusi. Per darvi l’idea di quanto sia isolata questa grande “roccia” (patrimonio dell’umanità – Unesco) di 166 Kmq, spuntata a causa di fenomeni vulcanici dal profondo dell’Oceano Pacifico, vi basti sapere che è distante 4.100 km da Tahiti e 3.700km dalle coste del Cile e che la terra abitata più vicina (1.900 km) è l’isola di Pitcairn, uno sperduto scoglio dove vivono qualche decina di discendenti degli ammutinati del Bounty… non per niente l’Isola di Pasqua fu definita da uno scrittore << l’isola la cui terra più vicina è la Luna ! >>.

Posta all’estremo vertice orientale del “triangolo polinesiano” rappresenta uno dei luoghi dove approdarono nel 400 d.c. le ultime migrazioni provenienti dai mari del Sud (le ultimissime migrazioni furono invece nelle Hawaii nel 600 e nella Nuova Zelanda nell’ 800 e cioè negli altri due vertici del “triangolo”)

A seconda dei visitatori l’isola ebbe molti nomi tra cui: Te Pito o te Henua (l’ombelico del mondo), Rapa Nui (la grande isola/roccia), Isola di Pasqua (perchè vi sbarcò l’olandese Jacob Roggeveen il giorno di Pasqua del 1722). In apparenza è una terra molto vuota e desolata, con ampi spazi brulli completamente disabitati, dove non c’è nulla e nessuno, dove spira sempre il vento e cade spesso una triste e lenta pioggerellina, un posto che impressiona perchè dimenticato da Dio e dagli uomini, dove i cavalli selvaggi corrono sulle colline, dove le scogliere sono sempre torturate da un mare tempestoso, dove il cielo è spesso plumbeo, dove tutto il paesaggio è nero per la roccia vulcanica e dove le grandi statue degli antenati polinesiani, fiere, sfidano il tempo e la solitudine. Questo è lo scenario giusto per afferrare la maledetta storia di un antico popolo che è riuscito ecologicamente e politicamente ad autodistruggersi. Vi racconto la storia dell’isola perchè ha molto da insegnarci: Rapa Nui era un’isola verdissima dove crescevano una grande varietà di piante (analisi dei pollini) tra cui moltissime palme ed alberi (soprattutto Toromiri) che formavano delle lussureggianti foreste. Anche la fauna avicola era ricchissima, infatti, essendo l’unica isola nel raggio di moltissimi chilometri, si concentravano molte specie di uccelli sia marini che terrestri come sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli.

I primi Polinesiani arrivarono intorno al 400 d.c., probabilmente erano poche decine di uomini di razza Maori provenienti dall’attuale Polinesia Francese. Con loro portarono tutti i mezzi per la sussistenza tra cui le galline, i topi commestibili, forse i maiali (usati spesso come “rilevatori di terra” a causa del loro fine olfatto) ed una serie di piante da coltivare come la patata dolce, il banano, la canna da zucchero, il taro ed altre. Poichè il suolo era vulcanico e quindi fertile, le piante importate si riprodussero con successo ed il momentaneo benessere fece crescere di molto la popolazione che disboscò sempre più le foreste dell’isola per avere a disposizione nuovi terreni da coltivazione. Anche i topi fecero la loro parte mangiando i semi delle palme.
Il crescente bisogno di legna da ardere, per fare canoe o per trasportare i “Moai” (le famose statue di pietra) unita al disboscamento agricolo fece inesorabilmente scomparire ogni albero sull’isola nel giro di un millennio con conseguenze disastrose: le piogge incominciarono ad erodere il suolo privo di protezione vegetale causando l’impoverimento della terra e quindi diminuendo la resa agricola proprio quando la popolazione era al suo culmine demografico (circa 9000 anime). L’erosione portò anche la siccità e molti corsi d’acqua si prosciugarono.
La mancanza di alberi, poi, impedì la costruzione di nuove canoe “improgionando per sempre ” questa popolazione sull’isola ed impedendo agli abitanti di andare a pesca per catturare pesci e delfini, una delle primarie fonti di cibo. Così si incominciarono a mangiare (oltre al pollame domestico) tutti gli uccelli autoctoni dell’isola, sterminandoli completamente. La fame spinse la popolazione ad atti di cannibalismo e il malessere sociale portò nel secolo 1600-1700 alle guerre tra clan e quindi alla diminuzione del numero degli abitanti (circa 2000). Già quando nel 1722 sbarcò l’olandese Roggeveen l’isola era una brulla e desolata terra abitata da pochi disgraziati affamati ed in lotta tra loro e quando James Cook sbarcò nel 1774 trovò molte statue Moai abbattute.
Le guerriglie interne e l’abbattimento dei Moai continuò sino a che gli abitanti non furono definitivamente sterminati da altre due piaghe: lo schiavismo e le malattie portate dagli europei. Quando Rapa Nui divenne parte del Cile nel 1888 rimanevano meno di cento indigeni quasi tutti vecchi e malandati condannati all’estinzione genetica. Una decina di loro cercò di incrociarsi con altre popolazioni per tramandare almeno parzialmente la razza polinesiana.

Quel poco che rimane della civiltà Rapa Nui quindi deve rappresentare, secondo me, il monito per l’uomo “moderno”: una grande lezione da una piccola isola ! Il piccolo e fragile ecosistema dell’Isola di Pasqua deve raffigurare simbolicamente la nostra “terra” . L’uomo, abituato a manipolare pesantemente l’ambiente, cerca di sfruttarne da sempre le risorse spesso senza pensare alle conseguenze, avvicinandosi pericolosamente a quel “punto di non ritorno” che condannerebbe la civiltà umana alla stessa fine subita dagli abitanti dell’Isola di Pasqua. Con questo non voglio condannare il progresso…anzi…ma semplicemente spingere le persone a pensare ad uno sviluppo più compatibile con l’ambiente.
Il viaggio: Partimmo il 21 Agosto all’ 1,15, in piena notte, dall’aeroporto di Tahiti Faa Polinesia Francese) con il volo Lan Chile LA 834 (5 ore e 20 minuti su un B 767-300). Scoprimmo subito gli svantaggi del monopolio aereo della Lan Chile per quanto riguarda l’Isola di Pasqua…infatti il servizio a bordo fu il più schifoso che abbia mai trovato in tutti i miei viaggi della mia vita !

Arrivammo la mattina alle 10,35 (- 8h rispetto l’Italia in questo periodo) all’areoporto Mataveri dell’Isla de Pascua (una curiosità: l’aeroporto è prediposto come pista d’atterraggio d’emergenza per gli Space Shuttle, 7 milioni di US$ d’investimento !) e dopo aver sbrigato le formalità doganali, un pulmino/taxi ci portò nella vicina Hanga Roa (unico villaggio dell’isola e quindi capoluogo) dove a pochi metri da una altissima scogliera a picco sull’Oceano sorgeva in direzione del tramonto il nostro albergo: lo Iorana Hotel. Lo Iorana è, insieme all’Hotel Hanga Roa, uno degli alberghi migliori di Rapa Nui, il che (per fortuna) non vuol dire lusso, folla e vita notturna, bensì una serie di stanzette molto piccole al piano terra, molto modeste, arredate come le vecchie pensioncine di Parigi, tutte con entrata indipendente (una specie di bungalows a schiera) con vista sulla scogliera nera resa nebbiosa dal frangersi delle onde.
Le camere erano quasi tutte vuote (in albergo eravamo 3 coppie su circa un centinaio di stanze), ed un silenzio quasi irreale faceva da padrone, interrotto solo dal fragore di un maroso o dall’abbaiare in lontananza di un cane randagio. Una porta a vetri dava su una piccola veranda da dove si poteva annusare la salsedine portata dall’incessante vento ed ammirare, verso l’interno, la desolata prateria alternata alle brulle colline dalle quali sorgeva spesso un arcobaleno (sono frequenti le brevi pioggerelline) dal forte contrasto cromatico, unico tocco di colore in un mondo in “bianco e nero”.
Una “magnifica desolazione” è l’espressione giusta (presa in prestito dal primo uomo che sbarcò sulla Luna) per definire l’Isola di Pasqua !
Il pomeriggio iniziammo l’esplorazione a bordo di un vecchio pulmino cigolante. Purtroppo la guida in lingua italiana era in ferie, quindi ci toccò il primo giorno una escursione in lingua inglese, il secondo giorno in lingua spagnola (la lingua ufficiale del Cile), poi il terzo ed il quarto giorno trovammo una diversa agenzia turistica locale con un Rapanui (si chiamano così gli abitanti ed il dialetto dell’Isola di Pasqua) che parlava italiano.
Da notare che spesso le guide raccontavano particolari diversi e contrastanti tra loro su uguali argomenti trattati a seconda della preparazione e soprattutto delle convinzioni personali che avevano…quindi consiglio di rivedere bene (magari tramite testi ufficiali) quelli che sono gli aspetti meno generali e noti. Talvolta spacciavano per accertate e sicure notizie che per ora erano solo teorie da accertare… e sugli antichi abitanti di Rapa Nui quasi tutto è supposizione e teoria poichè la tradizione si è tramandata oralmente (tramite le poche decine di superstiti alla schiavitù che fecero ritorno dalle piantagioni del Sud America) e le sole cose scritte (le tavolette di Rongo Rongo) non sono ancora state decifrate con certezza.

Il primo giorno fu dedicato all’estremo sud dell’isola. Le parti interessanti furono il misteriosissimo muro (in località AhuVinapu) simile a quelli costruiti dagli Incas in Perù ed il vulcano Orongo. Quest’ultimo è uno dei due vulcani spenti (che fungono da bacini di raccolta delle acque piovane e dove cresce la canna usata nell’artigianato locale…ricordate quei piccoli surf del film ?) perfettamente tondi con i coni ancora abbastanza intatti e ben definiti. Questo vulcano, insieme all’altro (Rano Raraku) diede il primo nome all’isola (non ricordo) che voleva dire “gli occhi che guardano il cielo”. Da questa parte dell’isola si può godere di un paesaggio mozzafiato dal quale si possono ammirare i “motu” (piccoli scogli) di Kao-Kao, Iti e Nui protagonisti delle gare che si facevano in occasione della festa dell’uomo-uccello (Manutara). Queste sanguinose gare consistevano nello scendere dalla scogliera verticalissima nei pressi del vulcano Orongo sino al mare, nuotare con il piccolo surf di canne in un mare freddo, infestato dagli squali e reso pericoloso dalle correnti marine (bisognava nuotare con una traiettoria “coperta” dagli scogli perchè una direzione diversa portava inesorabilmente a largo e quindi alla morte), arrivare sino ai “motu”, prelevare un uovo di “sula” (un uccello marino oramai estinto sull’Isola di Pasqua per mano umana e che fu riportato a Rapa Nui in occasione del film di Kevin Costner), metterlo in una sorta di “marsupio” legato intorno alla testa, tornare a nuoto sull’isola madre, scalare a mò di “free climber” di nuovo la scogliera e portare l’uovo “intatto” per primo al cospetto del re e dei sacerdoti. Il vincitore permetteva per un anno il governo del re appartenente al proprio clan. Chiaramente queste gare venivano effettuate solo dai clans dei “lunghi orecchi” (i nobili chiamati così per gli ornamenti sulle orecchie) che dominavano sui plebei “corti orecchi” , costretti in schiavitù a costruire le grandi statue di pietra…sino alla loro ribellione finale. Presso il tratto di costa dove avvenivano queste cerimonie si possono ammirare antichi “petroglifici” (immagini scolpite nella roccia).

La sera cenammo in Hotel in un silenzioso salone vista-tramonto dove servivano delle giovani ragazze vestite con i tipici abiti cerimoniali polinesiani. Purtroppo la carta dei menù che ci avevano portato era quasi tutta non disponibile e quindi ci accontetammo di quel poco che avevano (comunque buono) a base di carne e “tuna” (tonno). Ci spiegarono che delle decine di specie di pesci commestibili esistenti nelle acque profonde intorno l’isola venivano oramai pescate solo due (una era il tonno ed l’altra era un pesce simile allo sgombro, ma bisognava ordinarlo con qualche giorno di anticipo)…in più (sempre su ordinazione preventiva) venivano catturate (e vendute a peso d’oro) le “angoste” (aragoste).

Il giorno dopo di buon mattino continuammo il giro dell’isola risalendo la costa in senso antiorario, verso Est e poi Nord. Prima però feci una sosta in paese per fare un pò di compere (statuette di pietra, orecchini in piuma di gallina, tavolette incise di legno, magliette turistiche…) al mercatino “all’aperto” (solo una tettoia per la pioggia) del villaggio dove i prezzi erano decisamente migliori rispetto il “mercato coperto” ed ordinato sempre ad Hanga Roa. Lungo la strada visitammo una serie di piattaforme cerimoniali (Ahu) e molti Moai interi e distrutti, in piedi o caduti.

I Moai sono le statue di pietra costruite dai clans dei corti lobi su ordine dei clans dei lunghi lobi per ragioni onorifiche sia verso personaggi importanti che verso gli dei o semplicemente per commemorare un evento. Rappresentavano delle figure umane maschili (tranne in un caso) talvolta con simbolismo fallico. Le loro dimensioni erano variabili in base all’epoca e andavano da meno di un metro ai venti metri, tutti in posizione eretta (tranne uno seduto presso Rano Raraku) e tutti rivolti verso i villaggi a scopo di protezione degli stessi con le spalle al mare (tranne in un caso che vedremo più avanti). Dopo le ribellioni dei corti orecchi furono tutti fatti cadere a terra e solo in pochi siti sono stati rimessi in piedi in epoca recente (nel 1956, 1960, 1968, 1980, 1992…) grazie a fondi esteri spesso legati a sponsorizzazioni commerciali (es.Toyota). Talvolta i fondi non sono bastati a causa di episodi di corruzione…eh ! eh! …tutto il mondo è un paese !

Tra i siti più suggestivi della seconda escursione mi colpì Ahu Tongariki, formato da una grande piattaforma con sopra 15 moai di basalto alcuni dei quali forniti di “Pukao”. I pukao sono gli apparenti “cappelli” rossi dei moai. In realtà si tratta di “capelli” e non di “cappelli” e sono rossi a causa della diversa pietra vulcanica usata e rappresentano le acconciature degli uomini più illustri che per le cerimonie venivano tinte tramite una polvere rossa.
Oltre alle caverne naturali, prime abitazioni dei polinesiani emigrato e alle case di pietra costruite a forma di imbarcazione ed adibite al solo riposo notturno, fu interessante la scarpinata/scalata sul vulcano Orongo. Qui si può vedere un’alta concentrazione di moai terminati e non, in quanto ci troviamo nell’unica cava dell’isola dalla quale venivano estratte le statue (non i capelli) e trasportate con una tecnica particolare (forse in piedi… ma la leggenda parla di levitazione) in tutta l’isola. Nei pressi della cava si possono ancora trovare in terra gli attrezzi usati per scolpire i moai.

Seguendo l’itinerario verso Nord arrivammo nella località più magica dell’isola (Ahu Te Pito Kura) dove un muretto a secco circolare con in mezzo una grande pietra tonda e liscia e quattro pietre a mò di sedie rappresentavano il mitico “ombelico del mondo”. Chiaramente per “mondo” gli antichi abitanti si riferivano all’Isola di Pasqua poichè erano convinti di essere rimasti gli “unici” esseri viventi della Terra in quanto credevano che un enorme cataclisma (la stessa convizione che li aveva spinti ad emigrare dai tropici a Rapa Nui) aveva spazzato via il resto delle terre emerse. Questa misteriosa pietra (magnetica…le bussole infatti tutt’ora impazziscono !) secondo gli attuali abitanti sprigionerebbe energie positive (è meta infatti di alcune sette di “new age”) e quindi ci spinsero a sederci intorno ed a poggiare le fronti sulla sua superficie per “sentire” le emanazioni energetiche. Alcune persone sentirono delle vibrazioni lungo il corpo (secondo me suggestione) mentre io avvertii un bel niente (vedi anche rece di Medaebe).

La seconda giornata terminò all’unica “vera” spiaggia di sabbia (Anakena) dove i più coraggiosi tentarono un brevissimo e gelido bagno nell’Oceano mentre gli altri (io e mia moglie) muniti dell’indispensabile K-Way approfittammo della sosta per fotografare degli altri moai (…in piedi…uno dei quali fungeva da base di riposo per un falco, una delle poche specie di uccelli numerose in quest’isola) ed il palmizio da cocco (una rarità…piantato trent’anni fa per ricostruire la spiaggia così come doveva essere prima della definitiva distruzione degli alberi).

All’imbrunire ci riaccompagnarono in hotel percorrendo a ritroso e non senza difficoltà le strade sconnesse che ci avevano portato sino ad Anakena. Volevo ricordare che attualmente le uniche strade “lastricate” sono quelle principali della capitale. Il resto delle vie sono bianche, deserte, piene di buche e sassi, e spesso pericolosamente fangose o franate. Gli unici mezzi di trasporto che possono attraversare l’isola sono infatti le jeep, i pulmini (a stento), le moto da cross ed i cavalli. Quest’anno (2000) inizierà un progetto per asfaltare le strade costiere anche se gli abitanti sono poco contenti in quanto ritengono che i fondi Cileni sarebbero stati più utili per finanziare opere e strutture più urgenti.

Terzo giorno: partimmo la mattina presto verso l’interno dell’isola. Ci fermammo come al solito presso varie località, ma vi citerò solo quelle secondo me più significative: Puna Pau, la cava di roccia rossa (tufo friabile) dalla quale venivano estratti i “pukao” (i capelli dei moai), le varie grotte buie (portarsi una torcia elettrica) spesso profonde, dove si possono trovare a terra ancora crani ed ossa umane. Alcuni di questi anfratti posseggono degli angusti cunicoli che sfociano all’improvviso in una grande apertura sulla costa a decine di metri di altezza a picco sul mare (significato non ancora chiarito, forse vie di fuga).

Nei pressi dei siti archeologici vidi anche molti antichi forni privati dove venivano cremate le persone più autorevoli e forni “comuni” per i meno abbienti. A terra era comune trovare pezzi di ossidiana (una pietra nera e tagliente composta da lava vulcanica raffreddata violentemente, per esempio dall’acqua, e simile al vetro) molto usata dagli antichi abitanti per lavori manuali “di rifinitura” o taglio. Ma il sito più interessante della giornata fu Ahu Akivi dove sette moai (messi in piedi nel 1960) guardavano il mare in direzione delle attuali isole Marchesi (Polinesia Francese). A causa di questa caratteristica unica (come avevo detto prima gli altri moai guardavano tutti l’interno dell’isola per rivolgere il loro sguardo protettivo verso i villaggi) per molto tempo si è pensato fossero i mitici navigatori di HotuMatua (alias Ariki Mau). Ariki Mau era un re polinesiano, probabilmente delle isole Marchesi, che ebbe una serie di sogni premonitori. Sognò un grande cataclisma che doveva distruggere tutto il mondo ed un isola che doveva rappresentare la loro salvezza. Così partì insieme a 7 suoi guerrieri (ed altri suoi fedeli) in cerca dell’isola della salvezza. Una volta sbarcati sull’Isola di Pasqua (dove il re assunse il nome di Hotu Matua) i sette polinesiani morirono prima di tornare indietro a riprendere le proprie famiglie e così si narra che per onorarli vennero costruiti i sette moai rivolti verso il mare, verso la loro terra di provenienza. In realtà si è scoperto da poco che anche questi moai puntavano in direzione di un villaggio Rapanui posto molto più all’interno rispetto agli altri e quindi la direzione dello sguardo dei moai fu dettata solo da motivi tecnici e non “romantici”…perciò i sette moai non rappresentano i sette navigatori di Hotu Matua.

Quello che è quasi certamente vero di questa leggenda è il fatto che l’isola di Pasqua fu colonizzata da popolazioni polinesiane. Prima del 1994 si ipotizzava che in realtà i Rapanui potessero derivare dalle popolazioni sudamericane forse pre-incaiche (visto la datazione del misterioso muro di Ahu Vinapu) e questo nonostante il loro antico linguaggio (il Rapanui…ancora parlato da molti e da poco insegnato anche nelle scuole come il nostro latino) fosse quasi identico all’attuale Tahitiano. Sembrava quasi impossibile che si potesse navigare per 4000 km dalla Polinesia con semplici canoe a bilanciere spesso con venti e correnti marine poco favorevoli e trovare un “puntino” nell’Oceano.
Pareva quindi più probabile una civilizzazione proveniente dal Sud America (più vicino e con correnti marine più favorevoli). A questo proposito un grande studioso della civiltà Rapanui, il norvegese Thor Heyerdahl, tra le tante sue imprese e studi, decise di costruire nel 1947 una zattera con sette tronchi di balsa ed in 101 giorni dimostrò la fattibiltà di un viaggio con mezzi ancestrali dal Sud America sino alla Polinesia tropicale (arrivò sano e salvo sino all’atollo di Raroia nelle Tuamotu – Polinesia Francese).

Questa teoria fu poi smentita nel 1994 studiando il Dna di alcune antiche mummie che tolse ogni dubbio sull’origine polinesiana e non sud-americana degli antichi abitanti dell’Isola di Pasqua. Attualmente è rimasto ben poco di quel Dna nel sangue degli abitanti poichè il basso numero di superstiti di razza Rapanui “pura” dopo la fine della schiavitù impose il mischiarsi con altre popolazioni. Tutt’ora per evitare problemi genetici (ricordo che gli abitanti sono solo 2000) vengono favoriti e visti di buon occhio i matrimoni con gli stranieri: non per niente una delle più carine, sensuali e dolci ragazze biondissime dell’isola, nonchè prima ballerina del gruppo Kari Kari (un famoso gruppo di ballo polinesiano) è un ricordo (nipote) del famoso studioso norvegese. Molte di queste ragazze sognano un “principe azzurro” occidentale che le porti via dalla loro isola-prigione ma ho conosciuto un ragazzo che attratto dapprima dalla bellezza della sua “fanciulla” poi dal fascino dell’isola e dalla pace che regna, ha fatto l’inverso: si è trasferito lui ! (con rammarico della sua futura moglie…beffata !). Lungi comunque da essere risolto completamente il mistero dell’origine del popolo Rapanui…teorie e piccoli elementi discordanti insieme ad una scarsissima documentazione alimentano molteplici riflessioni.

Per esempio rimane un mistero la conoscenza della patata dolce (di origine sud-americana), il famoso muro pre-incaico, le tavolette di Rongo Rongo (quasi tutte distrutte dai missionari perchè contenevano i miti della loro tradizione e religione) i cui geroglifici sono identici a quelli ritrovati in India e in Pakistan, il culto dell’uomo uccello (l’avvoltoio) e le relative cerimonie funebri (come quella della scarnificazione) comuni a molte altre civiltà come quella Egizia, Celtica, Araba e Mediorientale, la cultura megalitica (ed il calendario solare trovato nell’isola) comune a moltissimi antichi popoli sparsi nel mondo, il colorito della pelle degli antichi abitanti troppo bianco, i tratti somatici dei moai simili a quelli indo-europei (è presente la barba che in genere i polinesiani non avevano), un’antica profezia Tibetana (che narra di un grande sconvolgimento terrestre dal quale si salverà solo un’isola chiamata “l’ombelico del mondo”…in seguito, dopo moltissimo tempo, anche quest’isola affonderà nell’Oceano e sarà la fine del mondo…) e tanti altri piccoli o grandi particolari.

Tutto questo miscuglio di misteri ha ovviamente generato anche teorie sull’origine di Rapa Nui più fantasiose ed ardite (appoggiate soprattutto dai vari movimenti “alternativi”… spesso sette e guardate con diffidenza dalla scienza ufficiale “esatta”) come l’immancabile perduta Atlantide, oppure altre civiltà evolute scomparse 10.000 anni fa di cui si è persa la memoria storica e tecnologica, oppure i continenti scomparsi di Mu e Lemuria, oppure le Terre di Davis (Terra Australis Incognita), addirittura c’è chi pensa che i moai siano stati costruiti a scopo di controbilanciare magneticamente una eventuale disastrosa inversione dei poli terrestri o che l’Isola di Pasqua sia in comunicazione tramite canali giganteschi sotterranei alla valle dell’Indo…poi c’è la teoria degli extraterrestri …non si finisce più ….penso che i misteri e le storie costruite intorno a questo piccolo lembo di terra non siano seconde neanche alla Sfinge ed alla Piramide di Cheope messe insieme.

Ma torniamo con i piedi per terra: le ragazze ! La sera per una cifra per niente economica comprammo un biglietto (e prenotammo la cena) per partecipare allo show di danze tipiche polinesiane presso l’albergo Hanga Roa. Due dollari Usa di taxi e dieci minuti separavano il mio albergo da quello delle danze.

Apro una breve parentesi pratica: in tutta l’isola il dollaro americano circola come moneta corrente insieme al pesos cileno. Non è quindi necessario recarsi in banca a cambiare il denaro se si posseggono i dollari Usa. Sono talmente usati che anche i resti avvengono in dollari (o cent); persino all’ufficio postale, quando si comprano i francobolli, vengono richiesti dollari Usa (l’unica cosa che nessuno ha capito è perchè a parità di francobolli a seconda di chi capita vengono richiesti importi diversi e addirittura anche lo stesso francobollo per cartolina non sempre ha lo stesso importo stampato in pesos…).

Lungo la strada notai una discoteca con un bizzarro parcheggio… praticamente era diviso in tre zone: una per le jeep, una per le “mature” moto da cross (ricordate i vecchi caballero ?) ed una terza per i …cavalli, mezzo di locomozione ancora molto usato.

Dopo cena ci recammo nel salone delle danze. C’era mezzo paese ! (le occasioni di svago per gli abitanti non sono molte !) Beh ! posso affermare (oramai dopo 3 anni mi sento un pò esperto) che le più belle, le più tipiche, le più emozionanti danze polinesiane sono proprio quelle dell’Isola di Pasqua, sono superiori persino come coreografia a quelle Tahitiane…e poi le ragazze: molto più belle, più sensuali, più disinvolte … …con tutti quei cocchi sui seni…un meraviglioso incrocio…anzi connubio…ma che dico? …sinergia tra il dolce ed erotico di una polinesiana, il viso grazioso di un europea ed il corpo di una sud-americana…wow ! …ehm scusate…mi sono fatto prendere un po’ la mano! 😉 Anche gli uomini tatuatissimi indossavano dei vestiti molto caratteristici ed i tamburi suonavano un ritmo molto “vero”. In effetti ci tennero a specificare (forse esagerando un po’ …con la loro tipica presunzione) di essere gli unici ed ultimi depositari della autentica musica polinesiana (e più in genere della cultura) derivata soprattutto dall’arcipelago delle Tuamotu, aggiungendo che oggi l’intera Polinesia tropicale attinge (addirittura con scarsi risultati) spunto musicale dagli abitanti dell’Isola di Pasqua…in pratica anche è come se i Tahitiani o i Samoani o altri “copiassero” la musica di Rapa Nui per poter ritrovare le proprie origini… sinceramente mi sembra un tantino esagerato !!! Lo show durò circa un ora e si divise in tre parti tematiche : l’Hoko, il ballo dalle radici antichissime, molto dolce e lento, il Sau Sau di origine Samoana con movimenti molto vari e il Tahitiano molto più veloce e ritmato. Io feci parte dello show (mio malgrado). Infatti fui invitato a ballare (cosa che odio..ma in Polinesia…non si può non accettare !) da una polinesiana la prima volta e dal momento che la maggior parte degli spettatori si erano rifiutati fui chiamato una seconda. Quest’ultima fu la più rovinosa…infatti non sapevo che l’ultimo che ballava era anche quello che rimaneva per quasi mezz’ora da solo al centro della pista, circondato se non altro dalle bellissime vahinè, a dare spettacolo… La gente (locale e non) nel vedere l’unico coraggioso tentare goffamente di imitare le movenze tribali polinesiane per tutto quel tempo si sbellicò da ridere fino a sentirsi male… mia moglie tentò di fotografarmi ma al primo scatto finì il rullino (e non sapeva ricaricare la macchinetta), quindi non ho un buon servizio fotografico ! La sera stanchi andammo a nanna…mia moglie rideva ancora !

Il giorno seguente ero famoso… come uscii dall’albergo, incontrai gente (stranieri o locali) che, additandomi ridendo, mi chiedeva (ovviamente per prendermi in giro) l’autografo ! o voleva che ri-facessi qualche passo di danza ! ufff !! Quarto ed ultimo giorno ed… ultima escursione… questa volta più breve e quindi senza il consueto “pranzo al sacco” consumato nella campagna, circondato da grosse scrofe, gatti e cani randagi che pretendevano il loro tributo in cibo.

L’itinerario iniziò dal minuscolo museo antropologico appena fuori la capitale Hanga Roa. Sinceramente non fu un gran che perchè era veramente piccolo ! In pratica era formato da due stanze, la prima era una rivendita di souvenirs specializzati come videocassette e cd, la seconda conteneva pochi reperti: quasi tutte copie di pezzi originali tra cui le tavolette di Rongo Rongo, l’unico Moai donna, i frammenti di corallo dell’unico “occhio” di moai ritrovato (pare che un tempo tutti i moai possedessero degli occhi di corallo bianco), qualche attrezzo e molti cartelli descrittivi quasi tutti in spagnolo. In lontananza si scorgeva il piccolo porto dell’isola (con moai annesso), talmente piccolo ed all’interno di una stretta insenatura scogliosa da non consentire l’attracco delle navi : infatti ogni rara volta che qualche cargo si avventurava sino in queste acque per trasportare qualche genere di merce era obbligato a fermarsi a largo dove veniva raggiunto da una grossa chiatta che faceva la spola dall’imbarcazione al porticciolo. Dal museo ci spostammo nella vicina costa ovest dove potemmo vedere una serie di siti interessanti primo fra tutti l’inquietante moai “con gli occhi ” (in realtà gli occhi non sono originali ma solo ricostruiti fedelmente). Nelle vicinanze altre serie di moai restaurati, antiche abitazioni e persino un porto in pietra con lo scivolo per le canoe. Approfittai della guida in lingua italiana e dei molti tempi “morti” per poter capire qualcosa di più della personalità di un “vero Rapanui”. La guida mi disse di essere stato uno degli assistenti alla produzione del film “Rapa Nui”, un film che lo aveva deluso perchè tagliato nelle sue parti più interessanti, al quale aveva partecipato quasi tutta la popolazione soprattutto come comparsa per un compenso giornaliero irrisorio appena incrementato dall’accettare a farsi filmare (per le donne) in topless.

Impressionante però fu sviscerare tutta la loro mentalità di Rapanui, mentalità che avevo già parzialmente afferrato da discorsi ed atteggiamenti di altre guide: I Rapanui si sentono polinesiani al 100% (più polinesiani addirittura del resto della Polinesia oramai, per loro, imbastardita dagli Europei) e questo pur sapendo di provenire da incroci e diluizioni quasi “omeopatiche” (infinitesimali) !!! Sono convinti che quei pochi geni rimasti facciano la differenza con il resto del mondo ! Loro sono più intelligenti di tutti gli altri popoli (ed ebbero il coraggio di dirmelo in faccia ! …quindi io sarei stato uno stupido al loro confronto !), loro sono più intuitivi, loro sono più abili in qualsiasi cosa materiale e non. Sostengono che studi genetici, non meglio precisati, asseriscono la loro superiorità mentale e fisica (una specie di razza ariana) e nessuno può contraddirli perchè tra i geni dell’intelligenza portano con sè anche i geni dell’ira… si considerano infatti buoni d’animo ma violenti di carattere…ovviamente dovetti assecondarlo per “il quieto buon vivere”! Secondo me, questo presunto separatismo intellettivo e culturale dal resto del mondo, questo sentirsi unici polinesiani a tutti i costi, unito alla minaccia della loro indole irosa, nasconde sotto un “movimento” che vuole politicamente essere indipendente dal Cile. Sfortunatamente per loro, poichè il turismo è ancora poco (ma sono ottimisti e nel futuro vorrebbero “diluire” le escursioni in 10-15 giorni…secondo me un furto!!!) non sono autonomi e devono accettare, loro malgrado, il governo centrale cileno che li “foraggia” con contributi economici e facilitazioni: come non pagare le tasse od essere ammessi all’Università del Cile (tramite un pre-esame) con un punteggio molto più basso che il resto dei Cileni; chiaramente il punteggio basso di molti studenti Rapanui fu giustificato immediatamente dalla guida con il fatto che poichè erano troppo intelligenti per il programma scolastico spesso si distraevano e si annoiavano “sembrando” solo in apparenza poco preparati…

Un’altra particolarità degli abitanti dell’Isola di Pasqua è la loro paura per la morte e la malattia unita ad un forte dose di superstizione. Sono molto rispettosi nei confronti dei moai e cercano di non oltraggiarli mai perchè anche se non fanno più parte della loro religione e credenze…non si sa mai ! Cercano di evitare una casa dove è morto qualcuno da poco e se vedono una persona malata o ferita in difficoltà, anzichè dare una prima assistenza, preferiscono allontanarsi e chiamare un medico occidentale senza toccare nulla. La loro paura per la malattie è talmente grande che i Rapanui che si recano in continente per gli studi universitari si iscrivono a tutte le facoltà eccetto quella di medicina! Non per niente le molte ossa umane visibili in alcune piattaforme sotto i moai stanno lì da centinaia di anni senza che nessuno le tocchi !

Prima di ritornare in albergo andammo a fare un giro nel mercato “coperto” di Hanga Roa, una struttura ben organizzata e pulita, dove le ordinatissime bancarelle vendevano ogni sorta di souvenirs. Sconsiglio di fare compere in questo luogo perchè i prezzi sono sensibilmente più alti: giustificati dalle maggiori spese di gestione dell’attività (meglio il mercato scoperto e più pittoresco dove vendono anche la frutta e la verdura).
La sera ci recammo all’areoporto (dove ci regalarono per ricordo le classiche collanine di conchiglie polinesiane) per il nostro volo (LA833 delle 21,15) che in poco più di sei ore ci ricondusse a Tahiti. Da lì proseguimmo per Los Angeles – Francoforte – Fiumicino, un viaggio di due giorni che purtroppo ci riportò alla dura realtà !