Le case di Sana'a
Yemen-Al Hajara, nido di aq
Le case di fango
Bambini di Sa'da
Noi in Yemen
Giordania Il foro romano
Giordania-Petra
Giordania - Il deserto del Wa

…sancendo con le armi l’unione fra uno stato del nord e uno del sud che appena l’anno prima si erano precariamente già unificati politicamente. Nello Yemen ogni tanto qualche beduino faceva il tiro a bersaglio sulle jeep dei turisti, ma non aveva ancora scoperto quanto fosse redditizio rapirne qualcuno per ottenerne in cambio favori e denari dal proprio governo. In Giordania regnava ancora Hussein e Sharm el Sheik, in Egitto, cominciava allora a contendere ad Hurgada la palma di perla turistica del Mar Rosso. Mia moglie ed io arrivammo a Sana’a, capitale dello Yemen, città che la leggenda vuole fondata da Sem, figlio di Noè, un mattino di metà ottobre, dopo aver trascorso la notte sul pavimento dell’aeroporto di Amman causa furiosa tempesta nel deserto che rendeva impossibile ogni decollo. Alloggiammo in un albergo a ridosso della città vecchia (la Medina) e attraversammo il wadi che taglia la città come una ferita nella roccia riarsa, separando la città più antica da quella più recente. Un wadi largo e poco profondo, che in quel periodo fungeva da polverosa autostrada per gli scassati camioncini locali, ma che quando le piogge scendono sui monti circostanti si trasforma d’acchito in un impetuoso torrente.

Già, le montagne. Fa impressione vedere le montagne che all’orizzonte cingono a semicerchio Sana’a. Vi chiederete cosa abbiano di impressionante. Beh, è che questa città si trova su un altopiano a 2.200 mt d’altezza eppure quelle montagne la fanno sembrare in pianura. Vedi Sana’a e non c’è nulla che ti lasci indifferente, perchè tutto ti assale alla gola. A cominciare dai suoi edifici. E’ vero, è una città costruita col “fango”. Mattoni di argilla essiccati al sole e dalla squadratura approssimativa costruiscono alti palazzi dalle forme a loro volta approssimative che ti pare impossibile possano stare su. Eppure ci stanno e sono tutto uno sfavillio di stucchi e decorazioni e pinnacoli e creste e finestre ornate di finissimi ricami il cui bianco persino abbaglia nell’incredibile luce di questo deserto d’alta quota. Perchè tutto attorno c’è il deserto, un deserto di polvere e di pietre calcinate dal sole. Una polvere che è dappertutto anche in questa città dove ogni casa pare una cattedrale e dove però tante cattedrali cominciano a patire l’usura del tempo e a sgretolarsi senza che per porvi rimedio ci siano abbastanza soldi da sottrarre agli armamenti di questo paese peraltro poverissimo.

La seconda cosa che ti prende alla gola è che Sana’a pare un mondo fatto solo di uomini e di bambini. Ma non può essere così, se ci sono tanti bambini dovranno pur esserci anche le donne. E infatti ci sono. Ombre silenziose che sfilano rare addossate ai muri dei vicoli, fantasmi che il burka integrale di stoffa nera (sotto il sole cocente) ti rivela essere di fronte o di spalle solo se guardi in che direzione vanno le punte dei loro piedi. Mia moglie non lo indossa e nessuno ci fa caso : lei è una straniera, le è permesso. Potrebbe persino girare per strada a capelli scoperti, anche se per via della polvere e dello “ambiente” preferisce tenerli sotto un fazzoletto, e non le direbbero nulla : qui l’integralismo islamico pare valere solo per le donne islamiche di famiglia. Anche al grande mercato centrale (ogni vicolo di Sana’a è un piccolo suq, ma poi ci sono i mercati veri e propri) le donne delle tribù montane che qui vengono a vendere la loro merce sono vestite di abiti colorati e non portano il burka..

Poi c’è la sporcizia. E’ incredibile quanta sporcizia giaccia abbandonata per le strade di questa città e l’odore dei rifiuti organici si mischia a quello delle spezie e degli aromi (vi siete scordati che lo Yemen è la patria della Regina di Saba, dell’incenso e della mirra?) in un misto indistinguibile di acre e di intenso. Ma la sporcizia peggiore è quella che non manda odore. I vicoli, il wadi, i cortili e le terrazze di Sana’a sono invasi da tonnellate di plastica abbandonata al suo destino. Plastica di bottiglie, plastica di teli e sportine, plastica a brandelli, plastica indistruttibile anche quando la fai a pezzettini minuti. Dopo vengono il qat e i coltellacci, entrambi virile appannaggio senza i quali un uomo non può dirsi un uomo. Non c’è uomo che non porti un coltellaccio ricurvo di trenta centimetri in bella mostra nella cintura e non c’è uomo che dopo pranzo non mastichi la sua quotidiana razione di qat (anche se dicono che pure molte donne lo fanno, ma appartate nelle loro case), ovvero le foglie dal contenuto anfetaminico di questa pianticella endemica di questi altipiani. Una “droga” legale e di massa, la cui coltivazione si va sempre più estendendo a scapito delle poche colture alimentari indigene, dal momento che la popolazione yemenita è in continuo boom demografico e quindi la richiesta sale sempre di più mano a mano che più bambini diventano adulti, e che si porta via buona parte dei magri guadagni di questa gente. Pare che il governo stia cercando di porvi un freno “culturale”, ma nessuno pensa che ci riuscirà. Eppure non c’è solo questa Sana’a.

C’è una Sana’a nuova e moderna dove anche le donne yemenite lavorano negli uffici aperti al pubblico e possono andare in giro vestite quasi come credono e dove i negozi hanno le vetrine e dove quasi tutto ti sembra il solito mondo che ben conosci. Ma questo è il ghetto. Il ghetto dove lo Yemen rinchiude il ventesimo secolo senza che possa dare fastidio. Da altre parti e nelle altre città di questo profondo nord yemenita non esiste nemmeno questo ghetto. Da altre parti, non esiste nemmeno il Governo, ma solo la legge beduina del capo-tribù. In Italia avevamo avuto notizia di un torinese che aveva impiantato una specie di agenzia di viaggi a Sana’a. La cerchiamo e la troviamo e qui ci organizziamo alcune escursioni su misura, noleggiando jeep ed autista locale. Ci sconsigliano la zona archeologica di Marib/Barraqish, perchè è da quelle parti che i beduini hanno preso a sparare ai turisti e per andarci è meglio chiedere una scorta militare (cosa che da un lato ha un suo costo e dall’altra non ci alletta proprio). E anche la cittadina di Shararh, che pure sarebbe una delle nostre mete, ma dove i bambini hanno scoperto il gioco della intifada e si radunano in folti gruppi per prendere a sassate i turisti occidentali.

Scopriremo in seguito durante le nostre escursioni che lo Yemen dei villaggi rurali offre i bambini più aggressivi che abbiamo mai incontrato per il mondo, ma anche che non è colpa loro nè della educazione che ricevono, bensì un triste “effetto secondario” di quel po’ di turismo che da qualche anno a questa parte arriva fin nello Yemen. Per la precisione, della stupidità di quei turisti occidentali che al coro di “oh, come sono carini, questi poverini vestiti di stracci” hanno preso a donar loro spiccioli e caramelle e altri regali. Il risultato è che ora in molte località appena intravedono un turista i bambini gli si lanciano addosso a torme esigendo, più che chiedendo, soldi e regali, fino al punto di infilarti le loro manine nelle borse e nei marsupi e nelle tasche e di prenderti a sassate se non gli dai qualcosa o non sei lesto a filartela via. In certi posti è così ed in altri no e come sarà lo impari subito non appena scendi dalla jeep. In qualunque luogo tu voglia andare lasciando Sana’a, c’è comunque da inerpicarsi per una qualche montagna. A volte si sale e si scende e si risale e la meta si trova nella vallata successiva. Più spesso, la tua destinazione è una specie di nido di aquile, arrampicato a strapiombo sulle rocce di una montagna ad oltre 3.000 metri di altezza.

La jeep sbuffa e arranca per le strade sterrate e acciottolate e si riempie senza scampo di polvere : ora so a cosa serve la kefiah, che qui va di rigore a scacchi bianchi e rossi e non neri come quella dei palestinesi. Io la mia me la son portata da Bologna, souvenirs dei tempi in cui si strillava Palestina Libera, e così anche quando mi ci intabarro in puro stile guerrigliero palestinese si capisce ugualmente da lontano che sono solo un turista, per via appunto del colore stonato. Lo spettacolo offerto da questi monti di roccia viva, dalle terrazze impiantate con tanta fatica dove si coltivano un po’ di cereali e tanto qat, dai villaggi non più costruiti col fango, ma con la pietra delle montagne, dalle vedute che di continuo si aprono su squarci panoramici di indicibile bellezza, è tale da giustificare in ogni caso questo viaggio. E sopra di noi un cielo blu e terso la cui limpidezza dell’aria permette all’orizzonte di estendersi fino a distanze impensabili per chi è nato nella pianura padana e tanto spesso da intorno a Bologna nemmeno riesce ad intravedere i colli sopra San Lazzaro.

Nel corso di più escursioni, visitiamo Thula (dove due giorni prima era stato in visita anche il presidente francese Mitterrand e per poco non ci restava con le coronarie a causa dell’altezza) e Hababa e Shibam e Kawkabam, che sorge su un alto sperone di roccia che poi discendiamo a piedi lungo il canyon che fino a pochi anni fa ne era l’unica via d’accesso ; Al-Hajara, cui vale andare solo per gli strepitosi paesaggi che si incontrano lungo il tragitto ; Amran, la cui principale caratteristica è che le sue case hanno la parte inferiore costruita in pietra e quella superiore in fango e paglia ; Wadi Dhar, una delle vallate-oasi più verdi di tutto lo Yemen dove il re ed imam Yaya si fece costruire un piccolo ma favoloso palazzo d’estate, oggi noto come Castello sulla Roccia. Tutti luoghi e villaggi estremamente suggestivi quanto invariabilmente autentiche cloache a cielo aperto, dal momento che tutti i reflui delle abitazioni escono da un buco alla base degli edifici e scorrono e si seccano in canaletti ricavati ai lati dei vicoli : quando verrà un temporale, la pioggia spazzerà via tutto (anche l’onnipresente plastica sminuzzata) e intanto il clima straordinariamente arido impedisce a germi e batteri di proliferare.

E ci rechiamo a Sa’da, l’antica capitale del Nord. Lungo la strada, sostiamo a pranzare in una specie di stazione di ristoro piena zeppa di beduini delle montagne. Li riconosci facilmente, perchè oltre al solito coltellaccio in cintura hanno tutti anche un bel kalashnikov a tracolla. Paghiamo (senza discutere, anche perchè è comunque una cifra irrisoria) il nostro pollo fritto tre o quattro volte più del dovuto e anche il nostro autista deve rassegnarsi a pagare il suo qat quasi il doppio del normale, cosa di cui poi non esita a lamentarsi con noi, chiamando ladroni quella gente che a suo dire non sono “yemeniti per bene”, ma appunto “beduini delle montagne”. Sa’da non è meno affascinante di Sana’a : una distesa di palazzi di fango dalle decorazioni molto spesso in giallo e tutta cinta da una solida muraglia difensiva.

Cattedrali che qui non vengono nemmeno più edificate con mattoni crudi, ma sovrapponendo strati di fango e paglia l’uno sull’altro: si aspetta che quello deposto si secchi al sole e quando si è solidificato se ne aggiunge un altro e così via, fino a costruire edifici di tre o quattro piani. Tutta l’architettura dello estremo nord yemenita segue lo stesso criterio e mi chiedo che effetto può fare starsene dentro una casa durante un acquazzone più scrosciante del normale che rischia di scioglierti letteralmente quella casa addosso. Qui non esistono una città vecchia e una nuova, nel senso che non ne esiste una “nuova”, nè materialmente nè culturalmente. Sembra che Sa’da sia una delle principali roccaforti contrarie ad ogni cambiamento della tradizione, a suo tempo fino all’ultimo fedele alla causa monarchica durante la guerra civile che alcuni decenni fa portò alla nascita della Repubblica del Nord (lo Yemen del Sud era invece protettorato britannico e quando ottenne l’indipendenza fece repubblica a sè fino all’unione dei due Stati, agli inizi degli anni novanta).

Da Sana’a ad Amman, capitale della Giordania, è come trovarsi di colpo in una sorta di Svizzera araba. E’ l’altro volto dell’Islam, quello voluto da re Hussein e dalla sua consorte, una regina che viene dagli Stati Uniti, quello “moderno ed occidentale”. Qui non esiste il burka e nemmeno un semplice velo sulla faccia delle donne, solo il canonico fazzoletto sulla testa, che non tutte comunque adottano. Qui le ragazze vestono in jeans e si ritrovano nei locali pubblici a bere, mangiare e chiacchierare fra di loro ed i mariti li vedi insieme alle mogli. Il traffico di auto per le strade è infernale e l’aria debitamente inquinata, ma appena esci dalla capitale le auto tornano a lasciare spazio ai cammelli e la polvere del deserto riprende il sopravvento sullo smog cittadino. Noleggiamo un’auto che provvederemo a guidare noi stessi fino ad Aqaba e cominciamo il nostro itinerario giordano da Jerash, l’antica città romana le cui rovine si stagliano suggestive sotto il cielo azzurro in mezzo al deserto.

E poi lungo la depressione del Mar Morto, nel quale immancabilmente facciamo il bagno per constatare la possibilità di starsene davvero riversi su quest’acqua ad altissima concentrazione salina a leggere un libro come se fossimo adagiati su di una comoda poltrona : beh, è proprio vero. E dopo il castello di Kerak, baluardo dei crociati in Terra Santa, e i mosaici pavimentali bizantini e un paesaggio di genti e di ambienti che sembra ancora tale e quale la Palestina in cui visse Gesù (l’altra faccia della Giordania rispetto a quella di Amman), eccoci a Petra. Petra, il sogno di pietra. Petra, che quando si apre improvvisamente ai tuoi occhi al fondo del canyon percorso a cavallo ti rendi conto di quanto possa essere limitata la tua immaginazione, perchè non avresti mai potuto immaginare l’emozione che in quel momento ti prende al cuore. Petra, con cui solo il tempio di Luxor può rivaleggiare quanto a senso di maestosa suggestiva bellezza. E poi il Wadi Rum, il deserto dagli infiniti colori della terra, delle rocce e delle sabbie : sulle orme di Lawrence d’Arabia. E come Lawrence, Aqaba, infine. Sarà un caso che nella prima bottega di Aqaba in cui ci infiliamo veniamo accolti da un vecchio che aveva fatto l’attore nel film con Peter O’Toole ed Omar Sharif ? Facciamo una puntata alla spiaggia e lì ci torna incontro l’Islam. Due giovani ragazze in jeans e maglietta che fanno il bagno in mare vestite, perchè un conto è la modernità e un altro è mettersi pubblicamente in mutande.

Un marito in costume da bagno che sospinge sull’acqua il materassino su cui completamente vestita è distesa la moglie, badando a ricoprirle subito le caviglie con la lunga gonna quando un alito di vento appena le discopre. Intorno, tedesche ed inglesi prendono il sole in bikini. Ed in città non vedi una sola donna al lavoro : negozi, ristoranti, alberghi, uffici pubblici hanno tutti personale esclusivamente maschile. Da Aqaba prendiamo il traghetto di linea che ci conduce a Nuweiba, nel Sinai, in Egitto. A metà traversata veniamo investiti da un specie di tifone improvviso e violentissimo che sembra voler spazzare via il traghetto e tutto il suo contenuto e per qualche lunghissimo minuto ci vediamo nella lista dei turisti stranieri annegati nel Mar Rosso nell’affondamento di quel traghetto. Poi cielo e mare si placano nuovamente di colpo e ti chiedi se sia stato vero o solo un incubo nell’esserti addormentato sotto il sole.

Da Nuweiba un taxi ci conduce fino a Sharm el Sheik, dove arriviamo a notte nello albergo che abbiamo prenotato con mezza pensione dall’Italia. Si trova sulla Naama Bay, già troppo affollata di alberghi e di turisti. Il clima e l’ambiente sono quelli del tipico posto vacanziero sorto dal nulla e che esiste solo per intrattenere i turisti, ma è piacevole e a questo punto ci voleva proprio un po’ di relax. E poi il mare è assolutamente splendido e per chi fa snorkeling come noi è un vero paradiso degno delle Maldive. Siamo a novembre, il clima è ottimale e la temperatura dell’acqua deliziosamente calda. Riusciamo ad accaparrarci una piccola utilitaria nell’unico posto dove noleggiano auto e ne hanno solo quattro a disposizione e questo ci permette di andare alla scoperta di altre spiagge meno affollate e persino deserte e soprattutto del parco di Ras Mohammed senza bisogno di intrupparci con le comitive che i pullman scaricano tutte sulla stessa spiaggia.

L’unica escursione organizzata che prendiamo è quella al monastero di Santa Caterina e per vedere l’alba dal cosiddetto monte Sinai, dove ad ogni angolo c’è qualcosa che avrebbe a che fare con Mosè, anche se pare ormai certo che da queste parti Mosè non c’è forse nemmeno mai passato. Comunque l’alba dalla cima del monte è davvero affascinante, anche se la devi pagare con una notte insonne, una faticosissima salita notturna e un freddo boia nell’attesa. Un giorno andiamo fino a Dahab, il primo centro turistico balneare del Sinai sorto negli anni sessanta, dove ancora si respira l’aria degli anni dei figli dei fiori e i turisti un po’ freaks e un po’ hippyes vengono intrattenuti dalle musiche dei Deep Purple e di Bob Dylan. Centodieci chilometri di strada asfaltata nel deserto, lungo la quale incontriamo altre tre macchine e quattro cammelli. Torneremo a Sharm el Sheik quattro anni più tardi e sulla quella stessa strada sarà tutto un via vai di auto e di pullman. Sulla Naama Bay gli alberghi sono arrivati alla quarta fila dalla spiaggia, i rent-car sono diffusissimi e la vecchia, cara, semideserta Shark Bay è sovrastata da un mega-complesso di appartamenti turistici.

Ma questa è un’altra storia, che non vale la pena di raccontare. Giorgio