Il panorama letterario della seconda metà dell’Ottocento è caratterizzato da una nuova necessità di scelte e schieramento da parte degli intellettuali. Il poeta, o l’artista, consapevole di rivolgersi a un pubblico di cui disprezzava la mediocrità, reagì scegliendo nella vita l’irregolarità e la trasgressione e rendendo ostica e riservata a pochi la sua opera, introducendovi tematiche che dovevano urtare e disgustare.

Fu principalmente Parigi il centro da cui si irradiò questa rottura e Charles Baudelaire se ne può considerare l’iniziatore. Comunemente egli viene considerato uno dei “poeti maledetti” , la nozione è in realtà il risultato di una visione letteraria riduttiva che deriva dal saggio di Paul Verlaine “Les Poètes Maudits“. Nel pensiero di Verlaine la “maledizione” implica, da una parte del pubblico e della cultura, un misconoscimento o un rifiuto di certi poeti; per Verlaine i poeti maledetti sono coloro che sanno unire la regolarità dello spirito alla grande retorica e che sanno far passare la chiarezza dietro la musicalità del verso.

La modernità della poesia di Baudelaire deriva dal fatto che trae ispirazione da quanto la vita ha di meno poetico, si nutre di ciò che la respinge, si attacca di preferenza a ciò che non tiene conto di essa. Nella sua opera fa del dandysmo la forma suprema dell’esistenza umana, vale a dire il modello più elaborato dell’assenza di attività, in cui non si ha altro da fare se non coltivare l’idea del bello nella propria persona. Tra i temi ricorrenti che caratterizzano la sua opera vi è l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti come mezzo di evasione. Il vino è considerato tra queste sostanze e tra esse è il prescelto dal poeta poiché ha la virtù di essere il più semplice e naturale, il più “popolare”.

Il vino è una figura ricorrente della visione baudeleriana che compare in diversi punti della sua opera. È una metafora a fondamento metonimico mediante cui si realizza lo scivolamento attraverso le “corrispondenze” (o analogie simboliche, uno dei principi costruttivi della poesia di Baudelaire). Spesso il vino è una iperbole che segnala la profondità di un segreto nascosto che il lento svolgersi del testo fa affiorare attraverso figure retoriche ironiche e stridenti in cui si inscrive la bellezza del Male.

Nel marzo del 1851 viene pubblicato per la prima volta su “Le Messager de l’Assemblée” un breve saggio dal titolo “Del vino e dell’hashish” con sottotitolo “comparati come mezzi per la moltiplicazione dell’individualità”. Il testo fu poi in parte riutilizzato da Baudelaire ne “I paradisi artificiali” del 1860 raccolta di brevi saggi che riportano riflessioni su vino, hashish e altre droghe. Sono scritti diversi, influenzati dall’esperienza personale del poeta nell’approccio a queste sostanze, ma anche elaborati sull’esempio dell'”ebbrezza” di Poe e sulle “Confessioni di un mangiatore d’oppio” di De Quincey.

Astraendo dalle parti dedicate all’hashish e alle droghe in genere, si ritrovano diverse massime brillanti e interessanti opinioni del poeta sul vino:

Il lavoro fa i giorni prosperi, il vino fa le domeniche felici.”

Se il vino sparisse dalla produzione umana, credo che si aprirebbe, nella salute e nell’intelletto del pianeta, un vuoto, un’assenza, una mancanza molto più spaventosa di tutti gli eccessi e le deviazioni di cui si rende responsabile il vino.”

Un uomo che beve solo acqua ha un segreto da nascondere ai suoi simili.

Niente uguaglia la gioia dell’uomo che beve, se non la gioia del vino di essere bevuto.”

Il vino e l’uomo mi fanno l’effetto di due lottatori amici che combattono senza posa e senza posa si riconciliano. Il vinto abbraccia sempre il vincitore.”

Baudelaire aveva sperimentato nell’attività poetica il più alto grado di vitalità come uno stato di costante eccitamento in cui la vita diventava decifrabile e ricca di senso. L’ebbrezza era uno stato indispensabile alla creazione poetica perché scardinava la banale quotidianità e richiamava a vivere in uno stato di libertà interiore. La ricerca di un metodo che gli procurasse lo stato propizio all’invasione lirica, spinse Baudelaire verso le droghe ma col tempo comunque se ne distaccò scoprendo che in realtà esse non erano all’altezza del compito, affermando che l’uomo “che non accetta le condizioni della vita vende l’anima” a qualche demone.

Non bisogna infatti erroneamente pensare che il poeta per aver scritto questi saggi fosse un cultore delle droghe, la sua posizione infatti è molto moralista seppur con qualche contraddizione. Egli infatti non fa una questione di sostanze, ma di uso e di utilizzatori delle sostanze stesse. In primo luogo si pone in posizione di “aristocratico intellettuale” quando afferma che le droghe non danno a tutti le stesse sensazioni: gli effetti positivi valgono solo per gli spiriti artistici e filosofici mentre per il “volgo” è solo fonte di effetti socialmente negativi in quanto con l’uso di queste sostanze i vizi del popolo verrebbero amplificati.

Quanto al vino in particolare, egli afferma: “Il vino è simile all’uomo: non si sa mai fino a che punto si possa stimarlo o disprezzarlo, amarlo o odiarlo, né di quante azioni sublimi o mostruosi misfatti sia capace. Non siamo dunque più crudeli con lui che con noi stessi, e trattiamolo come un nostro pari.” Il vino quindi secondo l’autore in sé non è né buono né cattivo ma esalta e amplifica la personalità di chi lo beve quindi ha il solo merito di esaltare le caratteristiche umane, vizi o virtù che siano ma è contro il suo uso dissennato.

Nel saggio l’autore fa poi una comparazione tra vino e hashish nella quale opta chiaramente a favore del primo: “Il vino esalta la volontà, l’hashish la annichila. Il vino è un sostegno fisico, l’hashish è un’arma per il suicida. Il vino rende buoni e socievoli. L’hashish isola. L’uno è per così dire laborioso, l’altro essenzialmente pigro. […] Infine il vino è per il popolo che lavora e merita di berne. L’hashish appartiene alla classe delle gioie solitarie: è fatto per i miserabili oziosi. Il vino è utile, produce risultati fruttuosi. L’hashish è inutile e pericoloso.”

Sul fatto che le droghe possano aiutare a sviluppare l’arte, l’opinione conclusiva di Baudelaire è negativa: non si può infatti pensare che la droga elevi ad artista poiché essa amplifica ciò che si è, ma non trasforma in ciò che non si è, provoca uno stato di fantasticheria che rimane fine a se stesso senza avere effetti apprezzabili sulla creatività. Su questo tema controverso sembra perciò prevalere l’opinione dell’autore che allude alla profonda autonomia espressiva della poesia e delle arti in genere come unici mezzi in grado di dar forma credibile ai fantasmi edenici dell’uomo.

La poesia realistica della strada, dell’umido selciato, del cortile delle caserme, di tutte le miserie del mondo, è il genere in cui Baudelaire dimostra meglio la sua maestria; essa si ritrova più aspra, più cruda nel ciclo “Le Vin” del suo capolavoro “I Fiori del Male” . La successione dei testi costituisce, in quest’opera, un itinerario che restituisce i momenti di una ricerca spirituale di per sé esemplare, che si articola nelle sei sezioni i cui titoli fungono da chiavi narrative e che si caratterizzano come altrettanti tentativi di evasione o di negazione di fronte all’inaccettabile realtà delle cose. In particolare il ciclo “Le Vin” descrive l’abbandono all’ebbrezza e il rifugio nei “paradisi artificiali” della droga. Qui il vino si mostra in una veste se non salvifica quanto meno consolatoria: “Sa rivestire il più sordido tugurio d’un lusso miracoloso e innalza portici favolosi nell’oro del suo rosso vapore, come un tramonto in un cielo annuvolato.”

In Italia, il “maledettismo” europeo ritrova una sorta di equivalente nella scapigliatura. Il movimento, dichiaratamente rivoluzionario e antiborghese, fece dell’inquietudine esistenziale, prima ancora che artistica, la propria bandiera. Nell’attività letteraria accolse influssi dal mondo francese ma anche inglese e tedesco, sviluppandone i temi con atteggiamento sperimentale ed esplorando nuove zone d’esperienza come la pazzia e il sogno, unendo ad esse l’interesse per il fiabesco e il fantastico. Come movimento d’avanguardia la scapigliatura non produsse opere artisticamente interessanti o particolarmente degne di nota, ma la sua importanza storica nel quadro della letteratura italiana è innegabile in quanto contribuì a calare il sipario sul romanticismo per arrivare a temi e soluzioni stilistiche completamente nuove. Emilio Praga, tra i maggiori esponenti del movimento, visse un rapporto con il vino che caratterizzò gran parte del suo percorso lirico (nonché la sua esistenza).

Nella sua opera “I superstiti” scrive:
E stasera, o mesta vergine,
noi stasera danzeremo,
e nel vino affogheremo
le mie ciance e il tuo dolor
.”