Con un percorso lungo la pedemontana antichi reperti custoditi dal Parco nazionale del Circeo si schiudono e offrono uno squarcio sulla storia romana. Ville come quella del Peretto (o dei Banditi, come è più conosciuta, visto che veniva utilizzata per ammassare e celare le ricchezze provenienti dalle razzìe operate dal brigantaggio diffuso nella zona); ora mostra una cisterna antichissima. E seguendo il Malpasso, che la gente del luogo evitava accuratamente di percorrere, si giunge fino alle Crocette e all’acropoli del Circeo.

E alle tre ville che i visitatori del Parco hanno la fortuna di poter vedere e che datano fra gli oltre duemila e i quasi mille novecento anni. Dalla tenebrosa villa dei Banditi si arriva alla seconda tappa della passeggiata studiata con cura e amore dall’Archeoclub, l’associazione che ha sede a Sabaudia; ecco apparire la villa della Sibilla, e poco più in là un’altra dimora antica e suggestiva, la Villa delle Dieci Camere, rimasta poco conosciuta o addirittura ignota alla maggior parte degli studiosi e di conseguenza dei turisti.

Il Picco di Circe, Torre Paola, il canale neroniano e la villa di Domiziano sono altre perle dei percorsi organizzati dalla compagine di esperti dell’Archeoclub. Il Litorale Pontino è uno scrigno di segreti e meraviglie ancora socchiuso. Bisogna aprirlo per avere la netta sensazione di quale ricchezza sia a disposizione dei turisti, anche dei romani che tante bellezze hanno a portata di mano.

Come la suggestiva Riviera di Ulisse, un mosaico assai variegato di terre emerse e ambienti marini che si snoda lungo la costa del golfo di Gaeta oppure il campanile della chiesa di San Pietro a Minturno, architettura storica di tre piani di bifore romaniche.

Ma si può anche passeggiare sulla mitica via Appia,realizzata dal Censore Appio Claudio nel 312 a.C. per collegare Roma a Capua oppure visitare il Castello di Fondi, costruito nei secoli XII e XIV, gli anni in cui maturavano l’Umanesimo e il Rinascimento, apprezzando i tesori del museo interno che raccoglie reperti di epoca romana.

I percorsi archeologici, storici, da leggenda sono le giuste pause da inanellare fra la spiaggia e il buon cibo.

Nemi, a strapiombo sul lago

“Appoggiata” a strapiombo sull’omonimo lago, Nemi, 521 metri sul livello del mare – è una piacevole località dei Castelli Romani inserita nel Parco Regionale e immersa tin una lussureggiante vegetazione.

La sua posizione strategica, sia militare che logistica, determinò fra il IX e X sec. d.C., l’edificazione della prima torre di avvistamento in difesa dei Saraceni, attorniata inizialmente da un piccolo nucleo abitativo denominato dapprima Oppidum e successivamente, per effetto dell’espansione, Castrum (XII e XIII sec.) per la presenza di una struttura urbana che comprendeva una rocca cinta da mura e un borgo. Sono i Colonna che portano a compimento la struttura castellare con 3 possenti torri e la cedono alla Famiglia Cenci, che successivamente nel 1572 la passa ai Frangipane, a cui si deve la ristrutturazione da castello a sontuosa residenza.

Nel 1781, il marchese Antigono Frangipane cede il Feudo di Nemi a Luigi Braschi Onesti, nipote di Pio VI, che avvia un’importante opera di abbellimento con pittori d’arte dell’epoca, Liborio Coccetti, e rifacimenti con l’architetto di fama Giuseppe Valadier. Passò nel 1861 alla famiglia Orsini e nel 1902 alla fam. Ruspoli. Oltre al Castello-Palazzo, simbolo della cittadina anche per l’originaria torre cilindrica, troviamo all’inizio dell’abitato la moderna fontana di Diana, statua in bronzo dello scultore-orafo Luciano Mastrolorenzi, e nella piazza centrale l’erma di Caligola che riproduce l’effige dell’Imperatore.

Vale la pena a questo punto andare a ritroso nel tempo, fino all’epoca dei Romani, e rammentare il connubio tra l’Imperatore Romano e la Dea e la cittadina di Nemi. In antichità infatti, la località intorno al Lago di Nemi, che occupa il fondo di due antichi crateri vulcanici fusi insieme per il frammentamento delle sponde contigue, era sacra a Diana, che vi aveva un santuario veneratissi mo, e Nemus, cioè “bosco sacro”, Dianae era il nome della località; il lago prese anche il nome di ” Speculum Dianae” ovvero Specchio di Diana, in quanto si riteneva che la Dea, oltre che protettrice delle donne, del parto, e dei figli e della caccia, vagasse nelle selve adiacenti alla ricerca della selvaggina.

Il santuario, dove si riunivano i rappresentanti di otto città Latine, è stato localizzato nella zona nord del lago: una grande piattaforma rettangolare, sostenuta da muraglioni e delimitata da un portico colonnato, rimangono resti di un altare e di un ambiente tripartito. Nei pressi sono stati rinvenuti ruderi di un teatro e di diverse dimore tra cui una villa imperiale.

Ci fu poi l’Imperatore Caligola che per i suoi fastosi spettacoli o per le sue fantastiche feste notturne fece costruire in loco due navi a chiglia piatta utilizzate sullo specchio d’acqua: una di 67mt di lunghezza e 20mt di larghezza e l’altra rispettivamente di 71mt e 24mt, ambedue in robusto fasciame di pino, rivestite esternamente di lana catramata e di lamiere di piombo, oltre a rivestimenti con preziosi marmi e mirabili sculture di bronzo, sprofondate nel fondo del lago.

Il recupero delle navi e relativo studio avvenne tra il 1928/1931 per opera di Guido Ucelli, il quale fece scavare un grande emissario e abbassò così il livello delle acque di circa. 22mt, ciò che consentì di tirare in secco i due scafi, dopo i precedenti tentativi falliti iniziati già dal 1446 da Leon Battista Alberti, da Francesco De Marchi nel 1535, nel 1827 da Annesio Fusconi e nel 1895 da Eliseo Borghi che trasse alla luce i bronzi, oltre a fibule plumbee iscritte ed alcuni mattoni bollati con il nome di Caligola (e questo permise l’attribuzione sicura all’Imperatore).

Appositamente venne costruito un edificio museale per ospitare i preziosi recuperi, di grande interesse architettonico, delle dimensioni esatte per contenere le navi, chiuso con vetrate e sormontato da una terrazza panoramica sul tetto, da cui si gode una splendida vista sul lago. Tutto peraltro inutile se si pensa che durante l’ultimo conflitto mondiale, il 1 giugno 1944, un puro atto barbarico da parte di alcuni soldati tedeschi causò l’incendio del Museo e la totale distruzione delle navi; i bronzi si salvarono perchè in precedenza trasportati a Roma presso il Museo Nazionale. Una piacevole curiosità di Nemi sono le violette che, grazie alla mitezza del clima, abbondano e rendono incantevole il paesaggio.

Prodotto tipico di Nemi sono invece le fragole, a cui in tarda primavera è dedicata una Sagra e alla quale partecipano le “fragolare” che staccano i frutti a mano e sfilano per il centro storico con il tradizionale costume: gonna rossa, bustino nero, camicia bianca, “mandruccella” candida in testa.

Quelle roccaforti sul mare …

La Fortezza Sangallo a Nettuno, la Torre Astura costruita dai Frangipane e il castello angioino aragonese di Gaeta: un viaggio nel passato. In una regione come il Lazio, dove l’attrattiva per eccellenza è rappresentata dalle innumerevoli vestigia della civiltà dell’impero romano e dalle testimonianze del cattolicesimo, parlare di rocche e castelli e suscitare comunque un minimo d’interesse è sicuramente un’impresa assai difficile.

L’aspetto peculiare della regione, peraltro, evidenzia due tipi di fortificazioni sorte durante il Medioevo: costruzioni difensive comprensive di un borgo, situate in posizioni d’altura strategiche che dominano ampiamente il territorio circostante, e roccaforti sul mare.

Limitandoci a considerare la parte meridionale della regione, troviamo diversi fortilizi lungo la costa: dalla Fortezza Sangallo in Nettuno, costruita nel 1501 quando papa Alessandro IV Borgia confiscò i beni ai Colonna, che si presenta come una possente costruzione quadrilatera antistante il mare, attualmente adibita a museo, alla Torre Astura costruita nel 1193 dai Frangipane, completamente circondata dal mare, sorta sui resti di una sontuosa villa romana, ed unita alla terraferma da un lungo ponte a 18 arcate.

A Terracina invece, nella parte alta, sulle pendici della montagna con mura di cinta dall’aspetto medievale, rimane visibile, dell’antico castello della famiglia Frangipane, solo la Rocca Traversa con il suo piccolo campanile, a seguito delle distruzioni intervenute nei secoli. Di tutt’altro aspetto invece si presenta il castello angioino-aragonese che sorge sul punto più alto del promontorio di Gaeta nel rione Sant’Erasmo. Si tratta infatti di un classico esempio di castello gèmino o gemello, costituito da due corpi ben distinti ma collegati; quello ubicato nella parte inferiore, che è anche il più antico, è denominato “angioino”, con pianta trapezoidale e cortile interno contornato da quattro torrioni e due torri a pianta semicircolare, mentre quello situato nella zona più alta, denominato “aragonese” presenta invece una pianta rettangolare e sempre quattro torri agli angoli, delle quali la più alta è detta Alfonsina. Incerta l’origine, le prime notizie certe si hanno con la venuta a Gaeta di Federico II nel 1211, e la sua storia è strettamente legata agli innumerevoli assedi subiti nel corso dei secoli.

Ben poco invece resta delle fortificazioni erette a presidio del villaggio di Mola (odierna Formia) se non la Torre cilindrica di vedetta (mt.15 di diametro e mt. 27 di altezza) sul lungomare, con tre livelli collegati da una scala a chiocciola; i resti del castello sono distribuiti su un impianto poligonale irregolare, e merita comunque di essere evidenziato il pregevole portale voltato con lesene e semicolonne ioniche in marmo bianco.

Un tutt’uno con il borgo è il castello di Minturno, edificato su un preesistente edificio, inserito nella cinta muraria, che dispone di un mastio (alto circa 44 metri) con duplice funzione sia residenziale che difensiva. Merita attenzione per la sua articolazione strettamente legata al suo inserimento urbanistico che mostra come l’irregolarità geometrica sia funzionale all’aspetto strategico difensivo.

Quasi al confine con la regione Campania, troviamo ancora resti del castello di Spigno (torre cilindrica e paramento murario) e un impianto di struttura castellare a Suio con torrioni cilindrici ancora in buono stato. Pur considerando tale sistema difensivo complementare alle molteplici torri di avvistamento dislocate a ridosso del mare, la zona laziale non è stata immune dalle scorrerie corsare che tanto hanno nociuto alle popolazioni locali e impedito un insediamento costiero più consistente.

Riscopriamo Itri…

Una realtà a misura d’uomo ricca di storia e di tradizione. Dall’infiorata alle specialità enogastronomiche…
Itri: una terra ricca di storia, di tradizioni, di cultura, di sapori nostrani. Ma non solo. Il territorio itrano – la cui caratteristica ambientale peculiare è quella di essere praticamente a cavallo tra collina e mare – evidentemente è alle soglie di una nuova era in quanto ha calamitato a sé anche l’attenzione della popolazione straniera che ha scoperto e dato particolare risalto al settore del mercato immobiliare.

“Itri come la Toscana”: questo l’apprezzabile paragone recentemente messo in evidenza dalla stampa. Ma non è la prima volta (vedi zone del Sud-Italia come la Basilicata e l’Irpinia) che luoghi cosiddetti a “misura d’uomo”, in cui la vita è decisamente più genuina rispetto a quella delle affollate metropoli piene di smog, vengono presi seriamente in considerazione anche da comunità straniere, come ad esempio quelle anglosassoni.

E allora vale davvero la pena di spalancare la “porta” di questo paese che ha dato i natali a personaggi illustri: da Michele Pezza (conosciuto come Frà Diavolo, brigante e patriota) a Beato Paolo Burali D’Arezzo (arcivescovo di Napoli). E ancora da Papa Urbano VI al patriota Raffaele Gigante, per finire all’astronomo Giovan Battista Manzi.

Un territorio ricco di storia, basti pensare all’antico castello medioevale; sorto come roccaforte per difendersi dalle incursioni attualmente in fase di restauro, vittima del tempo e delle devastazioni della seconda guerra mondiale. Collocato lungo il percorso della Via Appia (strada romana del IV secolo a.C. che univa Roma a Capua e, in un secondo momento, a Brindisi) il paese ebbe solo nel Medioevo un notevole incremento della popolazione con conseguente sviluppo urbanistico.

Da qualche anno, la locale proloco ha dato il via ad una colorata manifestazione denominata: “l’Infiorata” che ha luogo nel giorno della ricorrenza del Corpus Domini: in pratica si tratta della realizzazione – in strada – di grandi quadri, prima semplicemente abbozzati e successivamente colorati con petali di fiori raccolti proprio nel territorio di Itri. Un’usanza che non solo è un vero e proprio motivo di aggregazione per la popolazione locale, ma anche un modo per far emergere dai famosi quadri “fioriti” temi a sfondo religioso o – in ogni caso – legati al territorio di Itri. Il tappeto di fiori, inoltre, viene per tutto il giorno visitato da numerose persone e percorso dalla processione del Corpus Domini.

Non solo usanze: Itri offre anche la possibilità di valorizzare attività artigianali; note e apprezzate le lavorazioni in ceramica, legno, strame e pietra. Dalla storia, ai costumi, alle tradizioni, alle specialità enogastronomiche che si possono gustare in questa terra pontina: come le zeppole, i migliacci, gli struffoli. Fino alle ricette un po’ più elaborate e caratteristiche, come le lumache con patate e peperoni nonché il rinomato piatto di cotiche e fagioli.

San Magno tutto da scoprire

Un muro di origine romana rinvenuto durante i lavori di recupero dell’Abbazia a Fondi. E l’avventura archeologica continua… A Fondi, l’abbazia di San Magno, è ancora un mondo da scoprire. Durante i lavori di recupero dell’importante monastero medievale alcuni tecnici della Soprintendenza avrebbero rinvenuto un altro muro di epoca romana. Un “opus incertum” simile a quello rinvenuto nei pressi della sorgente, al livello inferiore dell’abbazia. Il secondo terrazzamento sarebbe visibile da un’apertura verso destra vicino il camminamento realizzato nella necropoli. Da anni la Soprintendenza dei Beni Culturali stava studiando la struttura paleocristiana.

Qui, nel 522 d.C. circa, Sant’Onorato volle fondare, ai fini di perpetuare la memoria del martirio di San Magno, che insieme ad altri 2597 cristiani suggellò col sangue la fede, un complesso monastico comprendente la chiesa, una curtis per la funzione economica, il chiostro, il dormitorio e la mensa per i monaci. E fino al 1072 fu governato dagli abati ordinari senza altra dipendenza finchè passò sotto l’abbazia di Montecassino. Poi nei secoli il ruolo dell’Abbazia, non solo in senso religioso, ma anche economico e sociale è stato rilevante, come pure i saccheggi e le numerose distruzioni ad opera dei barbari nei tempi antichi e dei francesi che nel 1798 demoliscono alcuni locali del convento dopo averlo saccheggiato per lasciarlo in balia degli “sciacalli” che portano a termine l’opera di spoliamento.

Dopo un lunghissimo periodo di abbandono in cui l’Abazia ha raggiunto il massimo del degrado, a causa delle intemperie e dell’uso improprio di cui è stata fatta oggetto. Negli ultimi due secoli è stata addirittura usata come stalla per le pecore e quindi successivamente è stata danneggiata fin nelle strutture portanti che conservano, tuttavia, l’impressione del suo splendore rinascimentale. La recente scoperta è stata fatta nel corso dei recenti scavi coordinati dalla Soprintendenza. La città di Fondi sorge sulla pianura litoranea compresa fra il mare Tirreno, l’omonimo lago e i monti Aurunci. Antichissima “urbe aurunca” fu successivamente occupata dai Volsci. Di “Fundi” già se ne parla nell’anno 338 a.C. al tempo della guerra latina. Motivo per cui è ricca di un generoso patrimonio archeologico.

I lavori all’Abbazia sono tuttora in corso, ma l’ultimo ritrovamento chiude una fase importante per gli scavi di recupero. Con il contributo di 1 milione e mezzo di euro stanziati dalla Regione Lazio sono già stati recuperati la chiesa superiore e inferiore del monastero, il mulino medioevale, mentre l’antico acquedotto che recava l’acqua dalla sorgente al mulino è stato ristrutturato con l’apporto economico del Consorzio di Bonifica del Sud Pontino. Quest’ultimo ente ha pensato in particolare alla sistemazione del letto del torrente fino al ponte della contrada San Magno. Manca, però, ancora il recupero della parte esterna dell’abbazia. Nella chiesa medievale sono stati rinvenuti un ciclo di affreschi della vita di San Benedetto e nella parte sottostante dell’abbazia anche due vasche che probabilmente servivano all’allevamento di specie ittiche.

Quei faraglioni di Campo Soriano

Maestoso, imponente, si erge il roccione che domina a quota 300 metri l’altipiano carsico dei monti Ausoni. Monumento naturale può diventare meta turistica Quando si dice faraglione, il pensiero corre inesorabilmente veloce a quei monoliti rocciosi, prospicienti coste a falesie che, per effetto dell’azione marina, s’innalzano isolati dalle acque; famosissimi sono i tre di Capri e quelli degli scogli dei Ciclopi antistante Aci Trezza in Sicilia.

Meno famoso ma altrettanto suggestivo e degno di nota è invece il roccione che domina incontrastato, a quota di 300 mt, l’altipiano carsico dei Monti Ausoni. Tale sito è Monumento Naturale e Parco Regionale di Campo Soriano, costituito tra i comuni di Terracina e Sonnino, con la Legge Regionale n. 56 del 27.4.1965. Con una superficie complessiva di 974 ettari, è stato il primo monumento naturale istituito nel Lazio. Qui, nella zona centrale del campo carsico, si erge maestosamente tale pinnacolo; scientificamente chiamato “hum”, assume diverse denominazioni: da ‘Carciofo di Sonnino’ a ‘Rava di S. Domenico’ e ‘Cattedrale’, per via della somiglianza ad un tempio gotico, vista la presenza in successione di tre guglie appuntite di roccia che si elevano dal rosso suolo fino ad un’altezza di 15 mt.

Troviamo inoltre, in questo luogo dall’aspetto quasi surrealistico, doline, campi carreggiati ed inghiottitoi (ovvero cavità verticali servite ad esaurire le acque, dove il microclima favorisce la crescita di alloro, leccio, pungitopo, orniello).

Il terreno rosso è frutto dei depositi residuali derivanti dall’attività chimica erosiva dell’acqua nei confronti delle rocce calcaree. L’acqua, con la sua continua attività corrosiva ed erosiva, anche per la presenza di fenditure nella roccia, ha determinato nel tempo il progressivo ampliamento delle vie di scorrimento, fino ad isolare in blocchi le iniziali emersioni di calcari.

Ora questi blocchi dalle pareti verticali sono tra loro separati da stretti corridoi e si è sapientemente provveduto, sfruttando anche le limitate spianate, a usufruire del terreno fertilissimo con coltivazioni idonee, come la vite, da cui si ricava il tipico e famoso moscato, attività che per altro non contrasta con la conservazione e tutela dell’ambiente. La permeabilità di questi terreni e le caratteristiche delle rocce esauriscono velocemente le acque meteoriche, in circa 36 ore, costituendo così il bacino determinante per la ricarica della falda da cui Terracina attinge l’acqua potabile.

A sud-ovest di Campo Soriano, attraverso il passo di Campo dei Monaci, una strada conduce fino a Francolane, dove è presente un campo carsico dalle caratteristiche naturalistiche integrali. E’ perciò sintomatico che una visita in questi luoghi, così radicalmente diversi dal panorama marino presente a soli 8 km, ci lasci attoniti e colpiti per la variegata diversificazione naturale a cui siamo stati esposti.

Quel borgo fiero arrampicato in cielo

Sulla cima del monte Trevi la antica rocca di Sezze domina la vallata Ricca di vestigia romane, secondo la leggenda è stata fondata da Ercole. A circa 300 metri sul livello del mare la splendida Sezze domina la pianura pontina da uno sperone del Monte Trevi, propaggine dei Monti Lepini.

L’incrocio tra la via Appia e la Pedemontana e la posizione strategica, hanno da sempre reso il centro abitato attivo e prosperoso. In origine città latina in territorio volsco, la sua fondazione viene attribuita ad Ercole giunto a Sezze dopo aver sconfitto i Lestrigoni, popolo del basso Lazio: lo stemma cittadino riporta il bianco leone Nemeo, ucciso da Ercole fondatore rappresentato mentre sorregge il corno pieno di frutti e di fiori, simbolo di’abbondanza e prosperità (comunemente cornucopia), cui peraltro si fa risalire l’etimologia del nome a setae, cioè le setole del velo del leone, della cui pelle Ercole si fregiava.

Nel IV sec. a.C. venne fortificata dai Romani a seguito delle frequenti guerre con le città vicine, divenendo poi municipio durante le guerre tra Mario e Silla (80 a.C.). Sede vescovile, passò sotto il dominio della Chiesa e successivamente dei Conti di Tuscolo e Frangipane.

Risalenti al IV sec. a.c. rimangono imponenti mura perimetrali, in opera poligonale, delle due cinte di mura che fortificavano l’antica Setia con diversi muri di costruzione all’interno. Le indicazioni fornite da alcune iscrizioni lapidee indicano che nel centro antico sorgessero un sacello di Augusto, un esteso tempio dedicato a Dio Apollo e una vasta basilica.

Nell’antico palazzo della Pretura troviamo l’Antiquarium comunale dove sono conservati resti romani tra i quali ceramiche, bolli laterizi, monete, vetri, bronzi ed un grande mosaico policromo a disegni geometrici del I sec. a.C.

Una sezione particolare merita invece la nostra attenzione ed è quella riservata ai reperti archeologici che testimoniano la presenza dell’uomo in questo territorio fin dal paleolitico: provengono da grotte situate sulle pendici delle colline, in zone impervie, con graffiti di animali e disegni rupestri.

Fuori le mura troviamo i resti di un ponte romano, i cosiddetti “archi di San Lidano”risalenti al II sec.a.C., una tomba romana denominata ‘La Torre’, e ruderi di una villa romana creduta di Mecenate e un’altra di Marcantonio.

Dopo tanta romanità, da segnalare sul piano squisitamente paesaggistico ed ambientale l’opportunità di una passeggiata sulla cima del monte Trevi (metri 505) imperdibile per il magnifico panorama che si coglie oltre che per la visione dei resti del complesso feudale risalente agli inizi del 1200 andato distrutto nel 1400 per opera degli stessi Setini per punire gli abitanti di quel borgo che si dedicavano a scorribande anche nei confronti dei centri limitrofi.

Un Pontino… da tavola

L’immagine del litorale pontino al di fuori dei suoi confini è profondamente legata alla bellezza delle sue coste e del suo patrimonio storico ed archeologico, ma questa è una terra che è fatta anche di lunghe tradizioni gastronomiche…

I vini del Circeo, le mozzarelle di bufala, il prosciutto cotto di Cori. E poi ancora il pane locale, le olive di Gaeta, il miele pontino, l’olio di Sonnino, i prodotti ortofrutticoli coltivati a Sabaudia, San Felice Circeo e Terracina. Nonché il prosciutto di Bassiano, i dolci di Sezze, il kiwi di Latina e le ostriche di Sabaudia. Un elenco di prodotti caratteristici ma soprattutto d’eccellenza tipici della provincia di Latina.

Monte S. Biagio è un piccolo comune arroccato sulle montagne che guarda da vicino, senza poterlo sfiorare, il mare che bagna Fondi e Sperlonga. Qui da tempo si è cominciato a puntare molto sulla qualità dei prodotti, su un processo di lavorazione curato dall’inizio alla fine nei minimi particolari. Un processo che sta trovando sbocco nell’elaborazione di un disciplinare che, nelle speranze dei produttori, porterà al riconoscimento di uno dei suoi fiori all’occhiello, la salsiccia di suino nero, come prodotto D.O.P.

Questo insaccato è prodotto con le carni di suini neri della zona della provincia di Latina che vengono tagliate grossolanamente con coltello e impastate con peperoncino, sale e due prodotti che appartengono profondamentea questa zona il Moscato di Terracina e il coriandolo, una spezia che gli Arabi portarono intorno all’anno mille. Il risultato di questa lavorazione, dei cilindri di circa 50 cm, viene fatto riposare per due o tre giorni in una capanna dotata di camino, per provvedere all’essicatura, fornendo all’insaccato quel tipico retrogusto di fumo. Nello stesso luogo avviene la stagionatura dei prodotti che vengono poi conservati sott’olio delle colline pontine, sotto sugna o sottovuoto.

Al fianco della salsiccia di suino nero, non si può dimenticare di segnalare la presenza di un altro prodotto tipico di questa zona: la marzolina di capra bianca. Un formaggio, fresco e stagionato, prodotto con il latte di una capra bianca che è stata riconosciuta ufficialmente come biodiversità.

Poco più piccola di una ciliegia, dal colore rosso vivo e dal sapore aspro: è la visciola, frutto tipico della località di Sezze, un territorio particolarmente apprezzato anche per l’ottimo pane casereccio, per gli squisiti carciofi e per la deliziosa zuppa di fagioli. La genuinità dei prodotti locali ben si sposa con la tradizione dei caratteristici dolci artigianali come, ad esempio, la famosa e ricercatissima pasta di mandorle e visciole.

«E’ un frutto – spiega la responsabile della pasticceria “Dolci tipici di Sezze” – simile all’amarena e che matura circa 15/20 giorni dopo la ciliegia. La particolarità delle visciole è proprio il loro sapore tipicamente aspro che fa da contrasto al sapore dolce della pasta con cui si fanno torte di diversa grandezza ».

Ed è importante sottolineare che «si tratta di dolci solo ed esclusivamente artigianali. Le nostre marmellate – che non contengono alcun tipo di conservante – sono tutte assolutamente di provenienza italiana». Ma perché la marmellata di visciole è così rinomata in questa zona? «Perché è un frutto che trova le proprie radici proprio a Sezze e soprattutto perché le nostre marmellate vengono prodotte in modo del tutto naturale ed è per questo che le crostate e le paste di visciole sono particolarmente richieste».

E continua in nostro viaggio alla scoperta dei sapori tipici del territorio pontino “gustando” il cosiddetto “Oro verde di Cori”. «Naturalmente con la dicitura “Oro verde” – spiega Raffaele Marchetti della Slow Food – si intende attribuire grande pregio alla qualità di olio che troviamo soprattutto nella zona di Cori, Giulianella e Rocca Massima». Una tradizione praticamente centenaria quella dell’olio in quanto «da secoli viene piantato in queste zone il Cultivar, un particolare tipo di ulivo, piantato dai monti Musoni ai monti Lepini. Ulivi che, a seconda della zona in cui vengono posti e quindi a seconda del microclima, producono un tipo diverso di frutto». In ogni caso il risultato è sbalorditivo, tant’è che «il nostro olio è molto apprezzato e riconosciuto come migliore d’Italia, infatti nella guida del settore redatta dalla Slow Food, sono state attribuite al prodotto le tre olive di garanzia».