Paese che vai…
di Barbara Ronchi della Rocca

Molti anni fa, a New York, a una cena organizzata dalle Nazioni Unite, ero seduta vicino all’ambasciatore di uno Stato dell’Africa subsahariana, laureato ad Oxford e impeccabilmente educato all’inglese, che mi stava raccontando di una leccornia del suo paese, le larve di un particolare verme… ma di colpo tacque, e ordinò al cameriere di portar via il piatto con l’insalata: “c’è dell’aglio! Non capisco come si possa mettere in bocca qualcosa di tanto disgustoso!

Quel giorno capii che l’uomo mangia qualunque cibo, ma non necessariamente lo stesso del suo vicino. E mi preparai spiritualmente a quello che avrei trovato nel piatto durante i miei viaggi in giro per il mondo. Così ho messo a dura prova i miei denti con il mandazi, la ciambella piatta a base di carne, che i kenioti inzuppano nel tè: appena cotta è croccante, poi assume la consistenza del cemento. Ho gustato il sorprendente tavuk gogsu che si mangia in Turchia, una crema densa a base di ali di pollo disossate e cotte con latte, zucchero e polvere tratta da una speciale radice. Ho provato il “tea time” in Costa d’Avorio, consistente in un bicchierino di dolcissimo tè alla menta accompagnato da pasticcini di farina di cocco e di frumento – il bicchierino va riempito 3 volte, via via aumentando la quantità di zucchero – e in Giappone, dove si beve tè verde senza zucchero con i classici namagashi, pasticcini fatti con un impasto crudo di fagioli bianchi.

E non è tutto: sono riuscita – se non proprio a fare onore – almeno a non rifiutare certi piatti tipici “un po’ troppo tipici” per palato stranieri: la balena bollita in Islanda, lo stufatino di topo e il brodo in cui galleggiano occhi di pesce in Cina, il cuore di cobra in Vietnam, le tarantole fritte in Cambogia, le libellule fritte in Zambia, tutta una serie di larve grigliate e caramellate in Tailandia. L’unica volta che ho contravvenuto ai doveri dell’ospite, rifiutando quanto offertomi, è stato di fronte al cane in salmì che mi venne posto davanti con grande cerimoniosità in Corea: mi sembrava di vedere lo sguardo dolce e intelligente di tutti i cani della mia vita – numerosi, e amatissimi – e non ce l’ho proprio fatta. Mi consolo pensando che anche il mio mito culturale, l’esploratore Sir Edward Lane, da buon britannico animalista avrebbe rifiutato. Per chi non conoscesse le gesta di questo avventuroso gentleman vittoriano, basta citarne solo una: mentre si trovava in Egitto cadde ammalato, e alcuni suoi amici locali gli portarono una infallibile medicina, un’ampolla contenente la polvere raccolta sulla tomba del Profeta a Medina, mescolata con saliva di pellegrini. Si profuse in ringraziamenti e bevve senza esitare – e guarì!

Ma torniamo al cibo, campo in cui anche la religione ha molta importanza, perché impone divieti e prescrizioni precise. Per esempio, in Asia ci sono più di 200 “scuole” di Buddisti, la maggior parte delle quali predicano il vegetarianesimo, altre il vegetalianesimo (che esclude anche latticini e uova), altre invece non impongono di rinunciare alla carne – d’altra parte lo stesso Budda ne mangiava, soprattutto di maiale. L’importante per un buon buddista è non macellare né assistere alla macellazione degli animali, per non infrangere il comandamento di non uccidere: in compenso, gli è concesso mangiare la carne degli animali di cui non ha causato la morte. In Thailandia e Birmania per definire una persona davvero virtuosa si dice che non ha mai rotto un uovo: ecco perché nelle botteghe ci sono cartelli che spiegano come le uova in vendita siano state “già rotte accidentalmente”; i ricchi invece delegano questo compito alla servitù, così conservano l”innocenza perché non hanno materialmente fatto il male, i servi dal canto loro non hanno colpe, perché l’hanno fatto su ordinazione. Una regola comune a tutti i buddisti proibisce il fumo, l’alcool, le bevande eccitanti e… le cipolle, perché a parer loro mangiate cotte rendono collerici, e crude inducono alla lussuria!

Anche gli Indu vietano gli alcolici, la carne di vitello – animale sacro – e tutte le verdure che nascono sotto terra, perché in esse potrebbe esserci racchiusa un’anima, nell’eterno ciclo della reincarnazione.
Gli Ebrei osservanti non mangiano carne di coniglio e di maiale, frutti di mare e crostacei; il loro cibo dev’essere kosher, cioè preparato seguendo regole particolari. Per esempio, non possono mangiare latticini e carne nello stesso pasto, e i più rigorosi hanno in casa due frigoriferi e una doppia batteria di pentole, in modo da tenere ben separati questi due elementi.

Anche per gli Islamici il maiale è un animale impuro, ed in più sono assolutamente banditi dalla tavola la carne di cavallo e di asino, il vino e tutti gli alcolici – se vediamo accanto al piatto due bicchieri, non facciamoci illusioni: oltre all’ acqua ci sarà aranciata, oppure latte o yogurt.
Evitiamo assolutamente di servire carne di coniglio a ospiti australiani o statunitensi: per gli uni è un animale lurido e dannoso, simile al topo; per gli altri un cucciolo domestico da tenere in casa per divertire i bambini. Entrambi comunque non lo assaggerebbero neppure sotto tortura!

Quanto a noi italiani, buongustai, mangioni, ma anche esterofili e curiosi di assaggiare cibi e piatti esotici, facciamo onore a ogni mensa. Purchè il padrone di casa non commetta l’imprudenza di portare in tavola un piatto di pasta asciutta: siamo convinti di saperla cucinare solo noi!

Barbara Ronchi della Rocca