L’Archeologia nel Piatto

Si impara prima a mangiare e poi a parlare. Si può stare per lunghi periodi senza parlare, fare, vedere, leggere e scrivere ma non altrettanto senza mangiare e bere. Altresì, mangiando e bevendo non si ci nutre semplicemente ma pur non volendo “si impara”, assimilando quel tanto o tantissimo di cultura compresa negli alimenti che non sono mai soltanto un neutro e indifferente rifornimento di energia. L’universo del cibo non va ricondotto, pertanto, ad una generica quanto impropria “cultura materiale” da contrapporre ad una virtuale “cultura spirituale”, ma più semplicemente al verbo colere, curare, da cui si dipartono in unità coerente di significato le parole coltura, cultura e culto.

Infatti, come la lingua, la letteratura e l’arte, così anche l’alimentazione è specchio fedele della storia e della ricchezza del nostro Paese e parte integrante del suo straordinario patrimonio di beni culturali.

Molti alimenti sono testimoni evidenti di riti antichi. Alcuni esempi: l’olio, il pane e il vino, ovvero il nome, il corpo e il sangue di Cristo hanno il loro fondamento e riscontro nel paesaggio agrario, dominato da viti, messi e ulivi, dell’Impero Romano e prima ancora in quello di Ulisse. Il nostro paesaggio anche oggi è segnato da queste tre essenze, già sacre a Bacco, Cerere e Minerva e dalle querce care a Giove e al “Nino”. La stessa “adorazione” di Dio o degli dei deriva dall’ador, l’altro nome del farro, il cereale antichissimo, con la cui farina mista a sale era confezionata la salsa mola usata per cospargere le vittime sacrificali e perciò dette “immolate”.

Parimenti, i nostri “crescione”, “crescia” e “crescenza” hanno la stessa radice di “crescere” e della dea Cerere. Anche il “pane quotidiano”, quello del Pater noster, è per eccellenza cibo del mondo civile perché frutto sofisticato del lavoro dei campi e, quindi, è cultura e non natura. Il “nostro”, però, è quello con quella forma lì consolidata in secoli d’uso in quell’angolo, magari piccolissimo, del nostro Paese dove siamo nati e cresciuti ed abbiamo imparato a parlare e a mangiare. Forma, composizione, presenza o assenza di sale, olio, strutto o latte al suo interno non sono frutto di gusti recenti ma, come le forme e le misure dei mattoni con cui per secoli sono state costruite le nostre case, sono stigmati identitarie che molto spesso hanno le loro radici nell’Italia preromana e romana. I dolci, i pani della festa, si sono conservati spesso intatti per millenni attraverso la ritualità calendariale del loro consumo. Sì che per misurare lo spessore storico e la qualità della civiltà di un paese non c’è migliore o più preciso termometro della ricchezza e varietà della propria alimentazione, autentica “cultura che nutre”.

Oggi troppo spesso “l’effetto rumore” dell’offerta globalizzata e nuove normative alimentari devastano il fragile equilibrio di un’identità raffinata in secoli di vita civile. Come le scialbature cancellano la storia dai vecchi muri delle case, così in quell’immenso museo a cielo aperto che è il territorio sempre meno sono i segni della memoria, mentre la sua gente è sempre più povera di identità.

Pertanto Io Nino 2009, con il progetto “Archeologia nel piatto”, non intende ricostruire “come mangiavano i Marchigiani all’epoca di Cesare” ma al contrario cercare di individuare e conoscere i tanti “dinosauri nell’orto” che la tradizione ci ha trasmesso con il variegato consumo alimentare, in modo da conservare con consapevolezza il millenario patrimonio di colture, culture e culti compreso nel “nostro pane quotidiano”.

Ivo Picchiarelli

http://www.festadelnino.org/