Il numero dei visitatori dei musei statali italiani è cresciuto, dal 1996 al 2005, da 25 a 33 milioni di visitatori, con un ritmo annuo superiore al 3,5%: ma a goderne, su un totale di 402 sedi, sono pochissimi: i primi nove con il ‘marchio’ più forte coprono la metà dei visitatori, mentre i tre quarti meno noti si spartiscono un misero 10%. E’ quanto emerge da uno studio condotto da Francesco Antinucci dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc) del Consiglio nazionale delle ricerche: ‘Musei Virtuali’ edito da Laterza. Il volume sarà presentato a Roma, martedì 5 giugno alle ore 17.30, presso la Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini.

Se si considerano i primi trenta musei in classifica, si nota che Colosseo, scavi di Pompei, Uffizi e Galleria dell’Accademia di Firenze nel 2005 hanno superato il milione di visitatori, mentre Castel Sant’Angelo, Circuito Museale di Firenze, Reggia di Caserta, Villa d’Este, Palazzo Pitti, Galleria Borghese, Accademia di Venezia e Cappelle Medicee hanno registrato tra 300 mila e un milione di persone un’affluenza oscillante. Sotto i 300 mila visitatori si collocano 18 musei e siti tra i quali Villa Adriana a Tivoli, Ostia Antica, Ercolano, Museo di Capodimonte, Paestum, Terme di Caracalla, S. Apollinare in Classe a Ravenna, Palazzo Ducale a Mantova, Museo Nazionale Romano e Bargello di Firenze.

“Se cumuliamo i visitatori l’effetto è eclatante” spiega Antinucci. “I primi 9 musei statali, cioè il 2% del totale, assorbono la metà dei visitatori, cioè quasi 17 milioni di persone, lasciando i rimanenti 393 musei a dividersi il restante 50%. I primi 33 musei, l’8% del totale, assorbono i tre quarti dei visitatori (e cioè circa 25 milioni), lasciando agli altri 369 il restante quarto (circa 8 milioni)”. A confermare la sproporzione, i dati 2005 relativi alle quattro più importanti pinacoteche romane: Palazzo Barberini con 87.000 visitatori, Galleria Spada con 27.000, Palazzo Venezia con 22.000 sommano un totale di 136.000 persone, mentre la sola Galleria Borghese ne ha totalizzate 440.000. Un analogo confronto vale tra Pompei e Ercolano, che hanno registrato rispettivamente 2.344.000 e 264.000 visitatori.

Viene da chiedersi: a chi serve e quanto costa, allo Stato, mantenere aperti 402 musei? “La situazione è tale”, aggiunge Antinucci, “che per coprire il 90% dei visitatori basterebbe mantenere aperti meno di 90 musei, mentre i tre quarti, cioè 310, potrebbero essere chiusi. Il maggior successo si basa sul fatto che anche i musei sono dei ‘brand name’, in grado di attrarre indipendentemente da ciò che essi mostrano o contengono” prosegue il ricercatore dell’Istc-Cnr.

A confermare quanto poco rimanga al visitatore dopo una visita, un’indagine svolta presso i Musei Vaticani. “Abbiamo chiesto a coloro che avevano appena terminato la visita se avevano visto e ricordavano due tra le più importanti sale, quelle di Raffaello e Caravaggio: hanno risposto sì 131 visitatori su 190, il 69%, contro i 59 no, quasi un terzo delle persone. A coloro che hanno risposto affermativamente è stata sottoposta una lista degli otto autori esposti nelle due sale – Raffaello, Caravaggio, Guercino, Guido Reni, Domenichino, Nicolas Poussin, Andrea Sacchi, Jean Valentin – chiedendo quali ricordassero. Solo 14 persone, poco più del 10%, ne ricordavano almeno quattro, il 15% solo tre, mentre il 46%, quasi la metà del campione, ricordava soltanto Raffaello. E’ stato chiesto poi di ricordare i soggetti dei quadri visti, fornendo dei suggerimenti tra cui due errati: Crocifissione, Martirio, Battesimo, Adorazione, Annunciazione. Metà del campione non ha ricordato nulla, il 18% almeno un’opera corretta, mentre il 32% ha ricordato cose che non aveva visto”.

La disomogeneità dell’afflusso e la mancanza di persistenza mnemonica dei visitatori, secondo Antinucci, sono entrambe attribuibili alla scarsa capacità dei musei di comunicare i contenuti. “Per superare tale difficoltà di veicolazione”, continua il ricercatore, “occorrerebbe affidare la spiegazione di un’opera a strumenti visivi, in ausilio allo strumento verbale-linguistico generalmente utilizzato, per garantire l’omogeneità del codice di comunicazione. Questo implica che le istituzioni si dotino di strumenti adeguati, investendo in ricerca e tecnologia”. Negli anni ‘90 l’entusiasmo per le novità delle applicazioni multimediali “aveva fatto sperare in un approccio più appropriato al settore dei beni culturali, ma a distanza di dieci anni dalle prime realizzazioni si può dire che così non è stato e che gran parte della tecnologia adottata viene intesa non come fine ma come mezzo. Computer palmari e telefonini utilizzati come ‘guide’, ad esempio, tendono sostanzialmente all’identificazione di un’immagine e non alla trasmissione di contenuti. Per i curatori di un museo il problema della fruizione non è centrale quanto l’interesse a garantire la scientificità dell’allestimento: si pensa a soddisfare più le esigenze degli studiosi che quelle dei visitatori”.

Neanche i siti web se la passano bene. Ai Musei Vaticani, l’82% dei visitatori non ha mai navigato nel portale, che interessa solo il 16% degli utenti al fine di preparare la visita. Solo 7 persone su 190 ne stima la capacità didattica. Quasi la metà di coloro che si recano nel museo reale pensa che il sito non serva a nulla, spesso giudicandolo una ‘brutta copia’ del museo reale. Un altro 27%, inoltre, non è proprio interessato al sito in sé. “Da questi risultati è evidente che il museo virtuale non va inteso come una replica di quello reale, come un catalogo o un’enciclopedia on line, ma come una proiezione comunicativa a tutto campo, senza le limitazioni del museo materiale, intervenendo sulla disposizione delle opere per creare dei ‘racconti visivi’ più adatti a tradurre i messaggi dell’opera”.

 Titolo Musei virtuali. Come non fare innovazione tecnologica
Autore Antinucci Francesco
Anno 2007, 129 p., brossura
Editore Laterza (collana Percorsi Laterza)