“Dietro la sofisticata e intellettuale bellezza di Angkor c’è qualcosa di profondamente semplice, di archetipico, di naturale che arriva al petto senza dover passare per la testa. In ogni pietra c’è un’intrinseca grandezza di cui uno finisce per portarsi dietro la misura.
Non occorre sapere che ogni particolare aveva per i suoi costruttori un suo significato, che ogni pietra, ogni scultura, ogni cortile, ogni pinnacolo erano tasselli nell’immenso mosaico che doveva raffigurare i vari mondi, compreso quello superiore, con al centro il mitico Monte Meru. Non occorre essere buddhisti o hindu per capire. Basta lasciarsi andare per sentire che ad Angkor, in qualche modo, ci si è già stati“. Queste parole di Tiziano Terzani, lette nei primi mesi del 2003, mi convinsero ancor di più che un viaggio in Cambogia era per me “necessario ed obbligatorio”.
Paola non è convinta: le mine della Cambogia le fanno paura, non crede che i posti che visiteremo siano sicuri. Faccio l’errore di darle una vecchia guida: alcuni turisti sono stati rapiti ed uccisi, mi chiede se sono ammattito. So che non c’è pericolo. Ne acquisto una nuova: i rapimenti e le mine sono un ricordo, anche se non troppo lontano, almeno per i posti che visiteremo noi. Le propongo di trascorrere il Natale in Cambogia ed il Capodanno in Thailandia: accetta con qualche perplessità. Ad agosto, in quel di Berlino, conosciamo Dany, cameriere khmer di un ristorante cambogiano: sarà a Phnom Penh proprio in quel periodo perché a novembre sua moglie partorirà la loro prima figlia, Sanera. La sua simpatia e l’idea di ritrovare un volto noto convincono Paola a seguirmi in questo viaggio.
Già a maggio mi presento in agenzia per bloccare il volo. Con sorpresa mi sento rispondere che per una buona tariffa sono “quasi in ritardo”. Con qualche difficoltà riusciamo a bloccare tutti i voli: si parte! Studiato lo studiabile e anche di più, programmiamo di andare prima in Cambogia, a Phnom Penh e ad Angkor, poi in Thailandia, ad Ayutthaya, Bangkok e Phuket.
19/20 dicembre 2003
Partiamo da Venezia, come spesso ci accade, ma almeno ritorneremo all’aeroporto di Trieste, a pochi minuti da casa.
A differenza di altre volte, il volo intercontinentale non è massacrante: prendo un sonnifero e riesco a dormire un pochino.
Il giorno dopo siamo finalmente a Bangkok. Un mal di testa ci affligge entrambi. Telefono a Dany per confermargli ancora una volta l’orario del volo: è contento del nostro imminente arrivo e siamo felici anche noi di rivederlo e conoscere la sua famiglia.
Un bel massaggio rilassante, molto diverso da quello che faremo al Wat Pho di Bangkok, ci fa dimenticare il fastidioso mal di testa e ci prepara per l’ultimo volo, almeno per il momento.
Siamo al Pochetong Airport di Phnom Penh, facciamo il visto direttamente in aeroporto pagando 20 dollari a testa. Guide e internet ci avevano messo in guardia su possibili fregature: si consigliava di stare attenti a farsi dare le ricevuta del visto per non trovarsi poi a dover ripagare i 20 dollari. Preoccupazione inutile: gli addetti al visto sono efficienti ed onesti. Passiamo al controllo passaporti. Tocca a me: il doganiere mi chiede se vengo dalla Thailandia. Gli rispondo che siamo stati in transito a Bangkok ma che non siamo usciti dall’aeroporto. Mi indica i timbri che tre anni prima mi avevano apposto sul passaporto. Gli rispondo che sono vecchi… Uno però non si legge bene. L’uomo si convince che sono entrato in Thailandia. Gli ripeto che anche se il timbro di entrata non si legge bene quello di uscita è chiarissimo: si riferiscono ad una visita di tre anni prima. Paola, passata indenne al controllo – lei in Thailandia non c’era stata – incomincia a preoccuparsi. Un mio sorriso non riesce a tranquillizzarla, tanto più che il troppo zelante doganiere la raggiunge e le ritira il passaporto. Non riesco a farmi capire. Non parla bene l’inglese. Non è il caso però di alzare il tono di voce: non vorrei mai essere rispedito a casa. Finalmente chiama un superiore: Riesco a spiegarmi e, come ulteriore prova, sono costretto a mostrargli i biglietti.
Nel frattempo Dany raggiunge Paola e preoccupato le chiede cosa sta succedendo. Gli sorrido per fargli capire che è tutto a posto. Passo pure io e l’abbraccio con l’amico cambogiano sarà un qualcosa che ricorderò per tutta la vita.
È venuto a prenderci con Chanthy, suo cognato, anche lui temporaneamente in Cambogia. Chanthy lavora per il Ministero del Commercio cambogiano: sarà prezioso nelle nostre conversazioni con Dany che conosce bene il tedesco, non altrettanto l’inglese. Ci accompagnano all’Holiday Intercontinental Hotel, prenotato via internet: un nome pomposo per un tranquillo hotel cambogiano. E’ sera, abbiamo fatto un lungo volo e Dany pensa che sia meglio se ci riposiamo: ci rivedremo la mattina dopo.
In realtà stanchi non siamo e, dopo una doccia veloce (l’acqua ha il sapore di terra), scendiamo in strada ad annusare la città. Saliamo su una motoretta. In città non ci sono taxi ma soli pochi remorque moto (carrozzine trainate da motociclette): siamo in tre e la cosa ci mette un po’ di agitazione, tanto più che il traffico sembra caotico e poco rispettoso del codice della strada.
Ci facciamo portare al F.C.C., il Foreign Correspondents’ Club in Sisowath Quay, lungo il fiume Tonlé Sap che poco più avanti si incontra con il più famoso Mekong. Saliamo al primo piano per bere qualcosa ma soprattutto per osservare il fiume dall’alto e, perché no, sentirci un po’ corrispondenti anche noi.
A Phnom Penh c’è ancora una strana atmosfera, specie di sera quando la notte prende il sopravvento sulle poche luci cittadine. In certi momenti pare di tornare indietro nel tempo, agli anni settanta, all’epoca della guerra dei khmer rossi. Sorseggiamo una Tiger affacciati al balcone. Sotto i nostri occhi scorre lento il traffico e numerose persone sostano lungo il fiume per godere di un robusto venticello che rinfresca la serata. Saliamo al secondo piano. Non c’è quasi nessuno: solo due uomini che chiaramente sbronzi discutono animatamente ma amichevolmente su chi sia meglio: l’Australia o gli Stati Uniti. Quando decidiamo di scendere nuovamente al piano di sotto, i due ci precedono: quello biondo, scalzo, più che camminarci davanti, barcolla visibilmente. Primo gradino tutto bene; secondo gradino tutto bene; terzo gradino ed inizia ad oscillare. L’amico poco più sotto non si accorge di niente. Io al contrario sono in “prima fila”. Vinto dai fumi dell’alcool, cade a peso morto a testa in giù lungo i ripidi scalini, arriva sul pianerottolo dal quale si dipartono anche le scale che portano in cucina, prende incredibilmente quella direzione con il corpo che ruota a 90 gradi. Discesa libera verso i fornelli e capocciata contro un fusto di birra. Non so se ridere o fare il serio per la possibile morte in diretta alla quale abbiamo assistito. L’amico statunitense e i cuochi corrono in suo aiuto. Sono quasi tentato di scattare una foto ma desisto, anche perché l’australiano non si muove: pare veramente morto! Chi corre a chiamare un’ambulanza e chi cerca di capire cosa si è fatto, io a vedere se da segni di vita e Paola che cerca di allontanarmi. Questa volta gli è andata bene: lo rivediamo pochi minuti dopo seduto ad un tavolo che ride, l’alcol gli sta anestetizzando i colpi ricevuti. Domani invece saranno dolori!
Usciamo dal locale – tanto ci torneremo – e ci dirigiamo lungo il fiume ma veniamo subito avvicinati da bambini che chiedono l’elemosina. In Cambogia c’è tanta miseria e non è difficile vedere gente che vaga mendicando. Ci dispiace vederli in quella situazione ed allunghiamo loro qualche Riel ma, non appena lo facciamo, se ne avvicinano degli altri. Non possiamo dare soldi a tutti e siamo costretti, viste le pietose insistenze, a ritornare sui nostri passi. Camminiamo per Sisowat Quay, una delle strade principali della città, e, senza volerlo, ci troviamo di fronte al ristorante Ponlok, famoso locale della capitale. Al piano terra i tavoli sono tutti vuoti. Ci invitano a salire le scale per cenare. Veniamo accolti da una ventina di ragazzini e ragazzine che ci fanno accomodare. I prezzi sono un po’ alti rispetto alla media, il cibo non è malvagio. Mentre stiamo mangiando, notiamo che otto di loro stanno “armeggiando” intorno a tre francesi: li stanno incredibilmente massaggiando, o meglio accarezzando. Non capisco. Lo comprenderemo in seguito quando, al termine della cena, la stessa scena si ripeterà anche con i sottoscritti che sganceranno una lauta mancia. Dany ci ha spiegato che il Ponlok è un ristorante un po’ particolare: i gestori danno vitto e alloggio a poveri ragazzi di strada che in cambio servono ai tavoli. Poi, per raggranellare qualche soldino, si prestano a fare massaggi ai ricchi e pasciuti turisti.
Dopo aver fatto uno foto ricordo con i simpatici camerieri, scendiamo in strada, saliamo tutti e due su una motoretta e ci facciamo riportare in hotel.
21 dicembre
Dany e Chanthy ci vengono a prendere in macchina e dopo alcuni minuti siamo a casa loro, una tipica abitazione cambogiana di città: un grande garage riadattato alla bisogna. L’entrata dà su una strada sporca e polverosa, una , sorride Chanthy. Credo che nessun turista occidentale si sia avventurato da queste parti: tutti ci osservano incuriositi. All’interno ci aspetta la “nostra famiglia cambogiana”: solo così posso definire quelle persone meravigliose. C’è Bonath sorridente, i genitori di lei, gentili e dolcissimi, un ragazzo, figlio di una sorella di Bonath e Chanthy, e Sanera, una bellissima bambina di appena un mese. Le hanno messo dei minuscoli guantini perché non si graffi. È buonissima, apre gli occhi quando la chiamano, la notte dorme tranquillamente e Chanthy commenta che la piccola è buona perché lo è il padre. Dany sorride.
Abbiamo portato dei regali per loro. Non sapevamo quanti fossero i parenti. Per fortuna abbiamo qualcosa un po’ per tutti. Lasciamo la casa. Ci torneremo a cena questa sera. Prima di andare al Museo Nazionale, le nostre due guide ci fanno fare un giro per la città. Ci fermiamo al Monumento all’Indipendenza, all’incrocio tra Norodom Blvd e Preah Sihanouk Blvd, un monumento recente dedicato ai caduti della guerra di Cambogia. Il Museo Nazionale è costituito da quattro cortili che si affacciano su un giardino. Al suo interno sono ospitate numerose opere dell’arte khmer, forse le più importanti di tutto il Sud Est Asiatico. In particolare mi interessa il famoso busto di Jayavarman VII, il più noto sovrano di Angkor. A lui infatti si devono i principali templi di quell’area. Ho con me una delle due reflex e la videocamera. Lo zaino con tutto il resto l’ho lasciato in macchina, tanto c’è Chanthy che “fa la guardia”. Non c’è nessun cartello di divieto e quindi scatto la prima posa. Un guardiano però si avvicina e mi dice che non è possibile fotografare l’interno del museo; lo si può fare solo nel cortile… “Ma se fuori non c’è niente!” gli rispondo. Pazienza: la foto di Jayavarman VII che mi sono sognato per mesi non la farò. Non voglio essere scortese ed apparire come il solito turista arrogante. Dany è con noi e ammira le meravigliose sculture che i suoi antenati sono stati capaci di realizzare e ogni tanto ci traduce le informazioni trascritte sulle targhette. Ed ecco il busto tanto sognato: il volto del sovrano khmer sprigiona tranquillità e pace da ogni poro della pietra di cui è fatto. Una ventina di ragazzini in gita scolastica ascoltano chiassosi la loro guida. Ho la tentazione di scattare una foto lo stesso. Desisto e proseguo nella visita di questo piccolo ma grazioso museo.
Nel cortile prendo coraggio e chiedo a Dany, titubante, di raccontarci il suo passato. Quando ha sette anni i khmer rossi gli uccidono entrambi i genitori, vive per altri sette nei campi di rieducazione, poi lo mandano a scuola in Vietnam (in Cambogia era impossibile studiare: tutti i professori erano stati uccisi dopo “l’anno zero” polpottiano). Vinta una borsa di studio, se ne va a Berlino Est nel 1988 a studiare ingegneria. Un anno dopo con il crollo del muro crollano pure i suoi sogni. La borsa di studio è garantita dallo governo della D.D.R.: la Germania Est esiste più e con lei la sua borsa di studio. La stessa notte in cui crolla il muro, un amico khmer lo chiama da Berlino Ovest e assieme a migliaia di persone varca il confine senza neanche sapere il perché. Ora vive e lavora come cameriere nella parte occidentale della città.
Siamo ora al Museo Tuol Sleng, noto anche con il nome di Museo del Genocidio, un’ex scuola, utilizzata dai khmer rossi come centro di tortura: la terribile S-21. Dany resta fuori. Preferiamo così: le immagini che ci sono all’interno è meglio che non le veda.
Visitiamo la scuola; preferisco chiamarla così, quasi ad esorcizzare ciò che simboleggia. Nelle stanze si trovano ancora gli strumenti di tortura che venivano usati con folle sistematicità sui prigionieri. Legati con le catene, in attesa di essere torturati, venivano rinchiusi in celle singole: in ogni stanza se ne trovano a decine, larghe neanche un metro e lunghe poco più. In altre, quasi come in un museo, troviamo esposte numerose foto di coloro che furono uccisi. In un’altra ancora quelle dei pochissimi, mi sembra quattro in tutto, che sopravvissero. Alle pareti, dei dipinti descrivono tragicamente ciò che durante quegli anni accadeva: neonati sfracellati contro gli alberi, gente messa in vasche piene d’acqua a testa in giù, poveri carcerati pungolati con acuminate aste di ferro. Dietro un vetro, esposti in un mobile, riposano decine e decine di teschi umani, gli stessi che troveremo al Killing Field di Choeung Ek.
Immagini dolorose, drammatiche, che però non si può far a meno di vedere. Per non dimenticare, o addirittura per “scoprire”, ciò che in questi posti è accaduto: terribili eventi che l’Occidente ha sottovalutato.
Siamo al termine di questa triste visita sul ballatoio di uno degli edifici quando vediamo Dany che, entrato nel cortile, si avvicina per dirci qualcosa. Scendiamo velocemente le scale per evitare che entri nell’edificio e veda ciò che lui non vuole. Ha fatto solo due rampe di scale ed ha già la pelle d’oca. Ci confida che il solo pensiero di ciò che è successo qui dentro lo fa rabbrividire. Usciamo in fretta.
È quasi ora di pranzo e Dany e Chanthy decidono di portarci in uno dei loro locali preferiti. Attraversiamo il Ponte Giapponese in Chruoy Changvar e imbocchiamo la strada n.6, quella che attraversa tutta la Cambogia, fino a raggiungere Angkor. La via è una delle più trafficate: numerose sono le biciclette che si avventurano coraggiose lungo questa strada polverosa, molte le macchine e i motorini che la percorrono. A un certo punto svoltiamo a destra, direzione Tonlè Sap – il fiume, non il lago – poi a sinistra, percorrendo una stradina in terra battuta lungo la quale si trovano numerosi ristoranti. Arriviamo a destinazione. Non ricordo il nome di quel posto ma è una delle cose più belle che abbiamo visto a Phnom Penh: un semplicissimo ristorante, si mangia seduti per terra e i piatti vengono appoggiati su delle stuoie colorate. Alcune donne cucinano su fornelli non troppo puliti. Non ci interessa, non lo notiamo nemmeno. Si pranza in una specie di box, su palafitte, con la stuoia al centro e delle amache ai lati: servono per riposare una volta terminato il pasto.
La vista è interessante e ci esalta. Sotto di noi scorre placido il Tonlè Sap. Siamo gli unici occidentali (non credo se ne vedano molti da queste parti): il posto o lo conosci o non ci arrivi più. Benedico l’aver incontrato Dany qualche mese fa: senza di lui questo posto così “vero”, così cambogiano, non l’avremmo mai trovato.
Ordina Dany per tutti: è del “mestiere” e ci fidiamo; non c’è menù ed il cameriere parla solo khmer! Dany ha capito che ci piace l’amok trey, un curry di pesce con latte di cocco, e ce lo ordina; poi dell’altro pesce, della carne e della verdura, il tutto accompagnato dall’immancabile riso. Dany ci racconta l’origine dell’amok trey. Spero di aver ben capito ciò che ci ha detto. Tanto tempo fa un sovrano khmer indisse una gara per la realizzazione di un piatto tanto buono da soddisfare il suo palato. In molti si presentarono al suo cospetto con le loro invenzioni. Un vecchietto fu il vincitore e quando il re gli chiese come si chiamava quel piatto che tanto gli era piaciuto lui disse che non aveva nome. Quel vecchietto si chiamava Amok e in suo onore il re decise che quel piatto si chiamasse come in suo superbo inventore (“trey” vuol dire pesce). Questo è ciò che ho capito: se sia giusto non posso giurarlo ma a me piace credere che le cose siano andate proprio così.
Da bere coca cola e birra. Dany chiede che le lattine ci vengano portare fresche ed ecco che il ragazzo arriva con un termos da campeggio pieno di ghiaccio e di bevande. Dany è gentilissimo e si premura di pulirci la lattina prima di versarci il contenuto nei bicchieri. Io e Chanthy lo prendiamo in giro.
Il ristorante è “aperto”: non solo perché non ci sono pareti ma anche perché ognuno può accedervi e vendere ai clienti frutta e altre cose da mangiare. Prendiamo un jackfruit. non l’avevamo mai mangiato. Ci piace molto: è dolce e colorato. Passa pure una signora con due ceste… Cosa sono? Ragni fritti!! dico a Paola “minaccioso”, risponde lei. Chiedo a Dany se sono buoni. Lui dice di sì ma mi sconsiglia vivamente di prenderli: li cucinano in ambienti non troppo igienici e il mio stomaco europeo potrebbe risentirne. Si tratta di prendere una decisione immediata: la signora ha già ricevuto il “no” di Paola e se ne sta andando… Non colgo l’attimo, me la faccio addosso, non lo so… Fatto sta che anche questa volta ho perso l’occasione di assaggiare qualcosa di particolarissimo. Mi “rifarò” il giorno dopo al Psar Thmei, il mercato centrale, seduto a un tavolino con davanti un enorme calamaro (niente di strano), guardando Paola con aria di sfida, a farle capire chi comanda…
Trascorriamo un paio d’ore in assoluto relax: il cibo è delizioso come pure la compagnia dei nostri due amici. Ci rilassiamo sulle amache dopo aver pranzato e bevuto come nababbi. Dany ci compra pure dei dolci di riso che pongono fine all’abbuffata.
Ritorniamo in città. Le nostre guide hanno da fare e così ci scaricano di fronte al Palazzo Reale. Questa sera siamo invitati a cena a casa loro e sarà Dany a cucinare per noi.
Paghiamo 6 dollari più 2 per la macchina fotografica (in realtà ho due reflex e pure la videocamera) per entrare nel complesso del Palazzo Reale dove si trova anche la Pagoda d’Argento.
A differenza di quello più famoso di Bangkok, questo è meno “carico”, meno ornato d’oro e pietre preziose. A me piace di più: c’è molta meno gente, il che ti permette di visitarlo con più calma, senza fare la fila per vedere questo o quell’edificio. Soltanto alcuni padiglioni sono visitabili; in altri vi soggiorna il sovrano, re Norodom Sihanouk, e quindi è impossibile accedervi. Alcuni giovani monaci buddisti, avvolti nei classici colori arancio, giallo e marrone, camminano silenziosi tra i padiglioni dai tetti gialli e verdi.
L’attrattiva principale di tutto il complesso è la Pagoda d’Argento, eretta nel 1892 e poi completamente ricostruita settant’anni dopo, così chiamata per via del pavimento ricoperto da 5.000 piastrelle d’argento da un chilo l’una. Trascorriamo all’interno del complesso un paio d’ore, più che sufficienti per osservare con calma ed attenzione tutti gli edifici del palazzo.
Usciamo dal retro del palazzo dopo aver visto un’esposizione all’aperto di artigianato khmer. Camminiamo senza meta lungo gli spaziosi viali costruiti dai francesi. Una mamma sta lavando la sua bambina in una fontana pubblica. La piccola avrà sì e no due anni. Ci guarda curiosa mentre ci avviciniamo. Tra le altre cose, abbiamo portato dei vestitini da bambina. Ce li ha dati una cuginetta di Paola, Alice, per i bambini cambogiani. Diamo quello che abbiamo alla mamma che, sorridendo, ci ringrazia: terminato il bagnetto le farà indossare un “nuovo” vestitino.
Lungo la strada notiamo dei bidoni. In cima a questi un contenitore di vetro collegato alla base da un tubo: sono delle stazioni per il rifornimento carburante. Ci sono pure quelle “vere”, quelle che si trovano anche da noi, ma queste, più alla buona, servono a rifornire le innumerevoli motorette che scivolano lungo le vie cittadine. Prendiamo una remorque moto, che tutti qui chiamano tuk tuk (come nella vicina Thailandia), anche se in realtà sono una cosa ben diversa. L’influenza della vicina Thailandia si fa molto sentire: qualche cartello e qualche t-shirt portano il nome “wat” (thailandese) anziché “vat” (khmer) a indicare la parola “tempio”. Qualche mese fa, in seguito ad un’affermazione di una non molto intelligente attrice thailandese, che attribuiva i templi di Angkor al popolo thailandese, sono scoppiati in città dei violenti tafferugli, culminati con la distruzione dell’ambasciata thailandese a Phnom Penh. In Cambogia si trovano sia macchine con la guida a sinistra che con la guida a destra: Chanthy ci ha spiegato che le seconde sono macchine, anche usate, che provengono dal mercato thailandese. Insomma: il vicino si fa sentire e si fa pure odiare.
Ritorniamo in hotel per una rapida rinfrescata. Dany non ci ha accompagnato nella visita al palazzo. E’ corso a casa per prepararci una cena cambogiana. Puntuale viene a prenderci con Chanthy. La tavola è imbandita ed aspetta solo di essere “alleggerita”. Tutto è molto buono: c’è pure l’amok trey che ci accompagnerà per tutta la vacanza. Parliamo della Cambogia, del futuro del popolo cambogiano. Chanthy ci dice che la Cambogia, a differenza di altri paesi dell’aerea, è priva di grandi risorse: l’agricoltura è abbastanza sviluppata; non altrettanto l’industria. Il sottosuolo è privo di grandi risorse naturali ed il turismo è fondamentale per l’economia cambogiana. Si paga l’IVA anche da loro (mi par di capire solo su certi tipi di beni, quelli d’importazione). Si pagano le tasse, ma solo se in possesso di un certo reddito annuo. La Cambogia è appena entrata nel W.T.O. (l’Organizzazione del Commercio Internazionale): forse questo l’aiuterà a uscire da una crisi nata con la guerra civile che ha sconvolto questo povero paese. Ci sono appena state le elezioni ma ancora non è stato formato il governo che condurrà il paese per i prossimi anni. Per questo vediamo tanta polizia per le strade, ci dice Chanthy. In realtà noi non ce ne eravamo neanche accorti: non ci sembra ce ne sia molta.
Dany ci chiede quali siano i nostri programmi per l’indomani. Gli rispondiamo che ci interessa visitare la Scuola delle Belle Arti per assistere ad una lezione di balletto. In più abbiamo portato qualche regalino dall’Italia (penne, colori, quaderni, fogli da disegno) e ci piacerebbe donarli a quei ragazzi. Una cugina di Dany è insegnante: assisteremo a una lezione. Un sorriso stampato sul mio viso mi accompagnerà in questa troppo breve serata: sono troppo felice di stare assieme a questa mia “famiglia cambogiana”.
22 dicembre
Ci alziamo di buon ora. Dany è venuto a prenderci in motorino, accompagnato da due guidatori che ha fermato lungo la strada. In tre, ciascuno su un motorino, ci dirigiamo verso la Scuola delle Belle Arti, che qui chiamano Royal Ballet School (e non Ecole des Beaux Arts come è scritto sulla LP). Ne approfitto per riprendere il tragitto con la mia nuova videocamera: che bello rivedersi a casa mentre scorazziamo nel traffico della capitale!
I driver ci aspettano all’entrata. Mentre ci avviciniamo si inizia a sentire della musica che esce da aule molto spartane. In un angolo, un centinaio di ragazzi fa colazione mentre altri hanno già iniziato le lezioni sotto lo sguardo attento e severo delle insegnanti.
Ho letto che Pol Pot ha fatto uccidere tutti gli insegnanti khmer. Si sono salvate solo due donne, grazie alle quali si è potuta mantenere in vita l’arte cambogiana.
Saliamo su un terrazzo sul quale decine e decine di bambini seguono i movimenti di altri un po’ più grandi ed esperti. Le insegnanti correggono le mosse dei loro alunni che, con grande serietà, seguono la lezione. Scendiamo le scale ed entriamo in una sala dove sta per iniziare una lezione di danza tenuta dalla cugina di Dany. Ci sediamo su una panca assieme alle maestre e, in silenzio, assistiamo a un’intera lezione. Ragazze e ragazzi danzano con grande maestrìa al suono di un rudimentale mangianastri. A volte sbagliano e vengono ripresi dalle insegnanti. Ci sono pure dei musicisti che, una volta terminata la cassetta, incominciano ad accompagnare i movimenti dei danzatori. Paola riprende con la telecamera e io scatto con la mia reflex. Alla fine diamo loro i regali che avevamo portato e dei dollari per comperare il gelato a tutti.
Usciamo dalla scuola e, assieme a Dany, ritorniamo in hotel dove ad aspettarci c’è una macchina che ci porterà ai Campi di Sterminio di Choeug Ek, poco fuori città. Anche in quest’occasione Dany non ci accompagna. Lo avrebbe comunque fatto per ospitalità nei nostri confronti ma abbiamo preferito andarci da soli ed evitargli un’inutile sofferenza. Attraversato un ponte il paesaggio cambia improvvisamente: non ci sono più case ai bordi della strada ma fatiscenti baracche e tanta immondizia. La strada è sterrata e procediamo lentamente. Se l’avessimo fatta in motorino o remorque moto ci saremmo impolverati per bene (beh.. e io invece che dovrei dire? Turista giapponese!!! “nota di Gianluca”). Arriviamo a un ponticello e il motorino che ci precede, trainando tre enormi giare adagiate su un simpatico carretto, si blocca improvvisamente: la ruota si è incastrata e non è in grado di spostarlo. Scendo e ,con l’aiuto di altri tre passanti, riusciamo a farlo ripartire e quindi a proseguire il viaggio.
All’entrata dei campi troviamo, come in altre parti, dei mendicanti che, senza braccia o gambe, ci chiedono l’elemosina. Non possiamo non dare loro qualcosa: ai bambini doniamo delle caramelle ma veniamo subito rimproverati da un occidentale, forse un prete, che ci ammonisce dicendo che in Cambogia ci sono pochi dentisti e le caramelle che abbiamo regalato a questi bambini possono causare loro gravi problemi. Ci scusiamo ma pensiamo anche che è proprio un assurdo: questi ragazzini non hanno niente e anche dar loro delle caramelle non fa altro che peggiorare le loro situazione. Di bambini poi ne abbiamo incontrati altri durante il nostro viaggio cambogiano e abbiamo continuato a dar loro le caramelle che ci eravamo portati dall’Italia: se abbiamo fatto bene o male non lo so, ma lo abbiamo fatto!
Entriamo e subito si para innanzi i nostri occhi lo stupa che contiene i teschi di centinaia di prigionieri che ebbero la sfortuna di passare di qui. Ci aggiriamo raminghi tra le fosse comuni sparse un po’ qua e un po’ là. Un vaso posto su un piedistallo contiene delle ossa umane… Il vento è forte. Dei bambini ci seguono nella speranza di rimediare qualcosa. Paola riprende con la telecamera, mi segue a distanza ed è così attenta a quello che sta facendo che finisce in una buca, probabilmente una fossa comune anche questa. Mi giro e la vedo là dentro: .
Ritorniamo in città. Passiamo per l’NCDP Handicraft, un negozio che espone i lavori artigianali fatti da disabili. Gli oggetti in vendita sono di ottima fattura; i prezzi non sono per niente alti: molto meglio fare acquisti qui piuttosto che contrattare nei mercatini.
Poco distante si trova il Vat Phnom, il tempio più importante della città. Nulla però a confronto con quelli di Angkor che presto vedremo. Il tempio si trova in cima ad una collinetta artificiale. Si sale lungo una scalinata difesa da Naga di pietra. Ci togliamo le scarpe per entrare nell’ubosot. Una musica in sottofondo accompagna la nostra visita durante la quale abbiamo modo incontrare le uniche persone italiane di tutto il viaggio cambogiano: sono tre donne che viaggiano da sole. All’esterno troviamo una statua del Buddha molto kitsch, molto moderna, con le lucine e delle spirali che girano… Ce ne andiamo al Psar Tuol Tom Pong, conosciuto anche come Mercato Russo, dove un tempo i russi andavano a fare acquisti. Per arrivarci abbiamo dovuto prendere un remorque moto. E’ un po’ fuori mano e la visita non è che sia così interessante. Le cose in vendita sono sempre le stesse: souvenir per turisti e oggetti di uso quotidiano.
Ci facciamo riportare in centro (anche se un vero centro a Phnom Penh non può dirsi che ci sia), lungo il Tonlè Sap, di fronte al Vat Ounalum. Entriamo. Non c’è nessuno tranne un ragazzo che spiega a noi e ad un’altra coppia di occidentali la storia del tempio. Sembra essere il più vecchio della capitale, e sicuramente uno dei più sacri, vengono persino da Taiwan per vederlo.
Accanto al tempio c’è un piccolo mercato, assolutamente fuori dal circuito turistico. Ci incamminiamo ma subito Paola mi ferma: il puzzo che pervade l’aria le provoca conati di vomito, non riesce a proseguire e siamo costretti a ritornare su nostri passi. Ce ne andiamo verso il F.C.C., il nostro posto preferito qui a Phnom Penh. Decidiamo di sorseggiare un’altra Tiger, seduti alla balconata che si affaccia lungo la strada. Immaginando di essere in compagnia dei corrispondenti di guerra che frequentavano anni addietro questo posto, sorseggiamo con grande compiacimento un boccale di birra: Terzani prende appunti al balcone mentre Schanberg e Pran parlano con l’ambasciatore americano.
Le parole di Gianluca rendono bene l’idea di cosa sia stato per noi, e pure per lui che ci ha seguito a distanza di qualche mese, questo posto: .
Facciamo una capatina al Psar Thmei, il Mercato Centrale, il più importante della città. La cupola che sovrasta il mercato vero e proprio (le bancarelle tutt’intorno sono un’aggiunta successiva) è strana: il colore giallo la fa una delle cartoline più vendute a Phnom Penh. È questo un buon luogo per fare acquisti, souvenir in particolare, ovviamente dopo lunga contrattazione.
E veniamo al calamaro gigante… Mentre ci allontaniamo per ritornare in hotel, dove ci aspetteranno Dany e Chanthy, passiamo di fronte ad una bancarella. Qui due signore stanno cucinando del pesce. Mi blocco, quasi ipnotizzato da cotanta bontà. Paola storce il naso: tra poco andremo a cena assieme dai nostri ospiti cambogiani e non è il caso di riempirsi la pancia adesso. Fingo di arrabbiarmi: non mi ha permesso di mangiare i ragni fritti ed ora mi fa storie anche per un calamaro!? . Pago, mi siedo sullo sgabellino ed assisto compiaciuto al taglio in mille pezzi dell’enorme calamaro, sul quale viene poi versato uno strano intruglio. Ne offro un po’ a Paola ma lei rifiuta e sentenzia: . Mi sento toccare le spalle, mi giro e con stupore vedo un bambino che, vestito di sole mutande, mi fa il gesto di dargli da mangiare. Rimango a bocca aperta: mi sono comportato da bambino viziato, pur di mangiare qualcosa di cui non avevo bisogno ed ecco che vengo punito! Che mi serva da lezione… Per la vita! Di bambini non ce ne è uno solo, ma tre. Non ho più “fame” e lascio loro il resto.
Corriamo in hotel e, dopo una rapida doccia, siamo di nuovo in strada. Ho invitato Dany e tutta la sua famiglia a cena fuori. Ho detto loro di scegliere il posto; il conto invece lo pagherò io. Ci sono solo Chanthy e Dany: gli altri sono rimasti a casa a “badare”a Sanera. In realtà si sono preoccupati del mio portafoglio: non volevano farmi spendere una “follia”. Mi spiace davvero tanto: ci tenevo a trascorrere quest’ultima serata tutti assieme e ringraziarli della loro ospitalità. Mi faccio promettere che dopo cena ci porteranno almeno a salutarli.
Usciamo dalla città e percorriamo per qualche chilometro la strada n.6, fino a giungere al Boeung Bopha Restaurant, il “Ristorante del fiore di lago”, dove ceneremo nel giardino all’aperto.
Entro io per primo mentre gli altri mi seguono ad una distanza di cinque metri. Subito vengo circondato da una decina di bellissime ragazze, tutte in minigonna, che – forse mi sbaglio – si propongono per la serata. Non appena entra anche Paola il sogno svanisce, l’harem si dilegua, le ragazze si fanno da parte e si limitano a proporci delle bevande per la cena. Ops! Ma in che posto ci hanno portato? Questo ristorante è un po’ ambiguo (magari per loro è normale): turisti non ce ne sono; siamo noi gli unici occidentali.
La serata trascorre piacevolmente tra un curry e una birra, una risata e un brindisi alla nostra amicizia. Sommergo Chanthy, che parla un perfetto inglese, di domande sul loro Paese: cosa sono quei banchetti lungo le strade, illuminati dalle candele? Quanto costa un motorino? Cosa ne pensano degli USA padroni del mondo? Ecc…Domande alle quali Chanthy risponde con grande cortesia. Bella! Proprio una bella serata! Che peccato che dobbiamo già andarcene.
Come promesso, Dany ci porta a salutare gli altri che sono rimasti a casa. Dico loro che ci è dispiaciuto non cenare assieme: ci avrebbe fatto tanto piacere averli nostri ospiti. Sorridono. Bonath e Sanera raggiungeranno Dany a Berlino il prossimo maggio. Magari le incontreremo di nuovo ormai “tedesche”.
23 dicembre
Sveglia presto. Auguri!!!! Paola compie gli anni.in quel di Cambogia. Stasera festeggeremo. Ora invece liberiamo la stanza. Dany ci accompagna all’aeroporto. E’ assonnato: Sanera forse ha fatto i capricci stanotte. Gli avevamo detto che ci saremmo arrangiati per raggiungere il Pochetong Airport ma non ha voluto sentire ragioni. Mi sono alzato con un po’ di mal di stomaco. Le parole di Paola sussurrate al Psar Thmei sono state profetiche: ho la diarrea! Adesso che dobbiamo partire per Angkor! Prendo due pastiglie di Normix, nella speranza di porre fine a questo supplizio prima di imbarcarmi sull’aereo. Dany ci accompagna fin dentro l’aeroporto. Probabilmente ci vedremo a Siem Reap: l’hotel che ci ospiterà è di proprietà del suo capo a Berlino ed lui ha un paio di cose da fare laggiù. Trascorro l’attesa dell’imbarco al bagno. Per fortuna c’è l’altoparlante che mi tiene aggiornato. Ho pure compagnia: ad un altro sventurato è toccata la mia stessa sorte.
Ecco che annunciano il nostro aereo. Voliamo con Siem Reap Airways, compagnia cambogiana controllata dalla thailandese Bangkok Airways. Il velivolo pare in buone condizioni: ha le eliche al posto dei reattori ma poco importa. Nessun pulmino ci accompagna alla scaletta: ce la facciamo a piedi.
Durante il volo ho la sensazione che da un momento all’altro precipiteremo. Ho ancora un po’ di diarrea e di conseguenza i sudori freddi. L’aereo ha le eliche e ciò mi sa tanto di precario. In sottofondo una stridula canzoncina di Natale ci accompagna per tutto il tempo. Il tizio davanti a me legge un libro… Ha iniziato il capitolo 17: si intitola “La fine degli uomini”. Non c’è nulla da fare: precipiteremo!
E invece no! Atterriamo puntuali all’aeroporto di Siem Reap, dove troviamo ad attenderci un autista che ci porterà al Bopha Angkor Hotel, prenotato via internet. Si propone di farci da guida per le giornate successive. Lo ringraziamo: ci siamo già organizzati. In realtà non lo siamo, ma ci sarà pure qualcuno che non in taxi ma in remorque moto ci accompagnerà nelle nostre visite!
L’hotel è carino. La nostra stanza ancora non si è liberata (sono solo le nove di mattina), per cui lasciamo i nostri bagagli alla reception e usciamo ad “annusare” la strada. Subito ci vengono incontro alcuni autisti di remorque moto. Ci accordiamo per 8 dollari per tutto il giorno. Si poteva fare anche meglio, ma cosa sono 8 dollari per un giorno intero? Mr. Sopha sarà il nostro fido autista per questo soggiorno ad Angkor.
Prima tappa, l‘Angkor Vat, il tempio più importante e famoso di tutto il sito e, a mio parere, il più bel monumento antico del mondo.
Più che un tempio, l’Angkor Vat pare sia un mausoleo – quello di Suryavarman II – essendo orientato a occidente e simboleggiando così la morte, in contrapposizione all’oriente, dove invece sorge il sole. Il tempio – chiamiamolo così perché Vat in khmer vuol dire tempio – è una riproduzione in miniatura dell’universo: la torre centrale rappresenta il Monte Meru, contornato da vette minori, circondate a loro volta dai continenti (i cortili sottostanti) e dagli oceani (il fossato). È cinto da un enorme fossato, largo 190 metri, che forma un gigantesco rettangolo di 1,5 km per 1,3 km, attraversato a ovest da una strada rialzata in arenaria. Il muro perimetrale ha la forma di un rettangolo di 1025 metri per 800. L’entrata principale è a ovest ed è costituita da un porticato lungo 235 metri. Nella torre che sovrasta la porta si trova la statua di Vishnu dalle otto braccia, alta 3,5 metri e ricavata da un unico blocco di arenaria. Entrando, si passa in mezzo a due biblioteche ed a due vasche rituali. La parte esterna della struttura centrale è decorata da una serie straordinaria di bassorilievi, lunghi 800 metri. Il tempio centrale è disposto su tre piani: al primo si trovano delle gallerie porticate; agli angoli del secondo delle torri minori e al terzo si erge la torre principale alta 55 metri. La scale che portano alle torri centrali sono molto ripide, a simboleggiare le difficoltà che incontra l’uomo per raggiungere il regno degli dei.
C’è poca gente a quest’ora (siamo fortunati) e ce ne sarà ancora meno durante la nostra visita che, con tutta calma, si protrae durante le ore più calde della giornata. Giriamo tutto intorno per ammirare i bassorilievi. Armato di carta e matita, ricalco alcune scritte in khmer antico che si trovano sulle colonne che sorreggono il porticato.
Salgo in cima all’Angkor Vat a “respirare la storia”, come scrive Terzani. Lo faccio da solo, Paola ha paura: le scale sono molto ripide e per di più quasi tutti i gradini sono smussati dal tempo. Io soffro di vertigini ma non posso tirarmi indietro. Arrivato in cima con tutto lo zaino di reflex ed obiettivi, mi diverto a consumare alcuni rullini: il paesaggio tutto intorno è strepitoso e le apsara scolpite sulle colonnine del cortile interno sono bei soggetti per le mie pose. Ed ora bisogna scendere. Guardo sotto: sarò ad un’altezza di 15/20 metri e mi viene un groppo in gola. Tanta strada per morire qui in Cambogia! Faccio un giro per vedere quale delle scalinate è la meno assassina e chiedo a Paola di fare lo stesso per dirmi da dove mi conviene scendere. Risposta: . Un inglese è nella mia stessa situazione: anche lui soffre di vertigini. Ci scambiamo un . Sistemo per bene tutto nello zaino: devo avere le mani libere. Se devo morire in questo modo che almeno Paola mi riprenda con la videocamera: ai posteri il ricordo di questo giovane che ha sfidato la sorte in quel di Angkor!
Scendendo gli orrendi scaloni – più alti che profondi e tutti erosi dall’incedere del tempo – nella stessa posizione in cui li avevo saliti (o meglio: scalati), riesco, non senza qualche tremore alle gambe, a raggiungere la salvezza. Dalla scalinata vicino è sceso l’inglese, paonazzo in viso forse per il gran caldo forse per lo scampato pericolo. Ci guardiamo e sorridiamo per l’essere ancora vivi.
Decidiamo di fare i turisti e ci facciamo portare da Mr. Sopha verso la mongolfiera, posta a un chilometro di distanza. Paghiamo gli 11 dollari a testa per salire e, assieme ad altre tre persone (non c’è gente… Tanto meglio: potremo goderci la vista dall’alto senza seccature), ce ne stiamo per alcuni minuti sospesi nell’aria. Soldi ben spesi: la vista dall’alto è mozzafiato ed è possibile farsi un idea dell’enormità e bellezza dell’Angkor Vat. Mentre Mr. Sopha fa uno spuntino seduto ai chioschetti vicini, noi ci sediamo sulla terrazza imbarcadero del Sras Srang, un bacino che attualmente misura 350 metri per 700, l’unico importante rimasto intatto. Il Baray Orientale e in parte quello Occidentale sono ormai prosciugati e forse questa (altri dicono a causa di un’invasione di un popolo nemico) è la ragione che spinse secoli fa il popolo khmer ad abbandonare l’aerea.
Accanto il Banteay Kdei, la “Cittadella delle celle“, tempio buddhista circondato da mura concentriche. I quattro ingressi sono sormontati dal gigantesco volto di Avalokiteshvara. Un guardiano ci controlla il pass (accade solo ai templi principali) e, dopo aver varcato l’enorme gopura, visitiamo il complesso in compagnia di un gallo e due galline.
Il tramonto si avvicina. Abbiamo in programma di farci portare al Phnom Bakheng, edificato tra l’889 e il 907 sull’omonima collina, posto ideale per godere del tramonto sull’Angkor Vat. Molti hanno avuto la nostra stessa idea e non ne siamo sorpresi: il tramonto da questa posizione è uno dei più fotografati qui ad Angkor. È possibile farsi portare in cima a dorso di elefanti ma non abbiamo tempo e dunque saliamo a piedi.
Accompagnati dal suono ritmico di una musica cambogiana, saliamo lungo il percorso assieme ad altre persone, quasi a simulare una processione. Il momento è magico: mi sembra di esser tornato indietro nel tempo. Arriviamo in cima con il fiatone. A precederci ci sono ormai molte persone. Troviamo comunque un ottimo posto: saltiamo dall’ultimo livello del tempio al penultimo, dove non c’è nessuno (altri faranno come noi) e posiziono il cavalletto che userò sia per la reflex che per la videocamera. In fondo, a una distanza di poco più di un chilometro, sbucano dagli alberi le torri dell’Angkor Vat. Poco sotto gli “autisti” di elefanti prendono in giro noi turisti che, a bocca aperta, volgiamo lo sguardo verso qualcosa che per loro è così normale. Un “ooohhh” collettivo accompagna il sole che sparisce all’orizzonte.
Scendiamo da dove sono saliti gli elefanti. E’ ormai buio e dobbiamo fare particolare attenzione a non calpestare gli escrementi che questi simpatici pachidermi hanno lasciato sul sentiero.
Sotto Mr. Sopha ci aspetta e, non appena sbuchiamo fuori dagli alberi, il suo sorriso ci illumina la via. Saliamo sul “calesse” e ce ne torniamo in hotel.
Un’irrefrenabile voglia di gelato mi assale. Non so il perché ma lo capirò presto. Abbiamo camminato tutto il giorno sotto un sole cocente, ci siamo alzati presto la mattina, Montezuma è venuto a trovarmi di buon ora, non ho bevuto che una coca cola: ho preso un bel colpo si sole! La temperatura corporea si è alzata, sento freddo e ho solo voglia di gelato. Sono stanchissimo e non ce la faccio ad alzarmi dal letto. Paola è molto preoccupata, fin troppo… Le dico che è solo un colpo di sole e che domani sarò in piena forma.
24 dicembre
Ci alziamo abbastanza presto. Mr. Sopha ci aspetta davanti all’hotel. Altri driver si fanno avanti per offrirci un trasporto. Faccio segno che il trasporto ce l’abbiamo già, Mr. Sopha sorride.
Prima di partire, però, diciamo a quelli della reception che nella nostra stanza, e in particolare in bagno, si sentono cattivi odori. Chiediamo se è possibile cambiarla. Ci dicono che l’unica stanza disponibile è una deluxe. Noi abbiamo prenotato una standard: se paghiamo la differenza di prezzo non c’è problema. L’odore, o meglio il puzzo, è insopportabile e ci accordiamo perché si faccia il cambio: pagheremo la differenza. La stanza che ci danno è ampia quasi tre volte rispetto a quella precedente, il bagno enorme, con la vasca e la doccia. Il letto è incredibilmente grande: hanno accostato due letti matrimoniali e ci si potrebbe dormire in quattro! Invece del puzzo, un soave profumo di fiori invade la stanza: finalmente!
Rifacciamo la strada del giorno prima, passiamo al controllo biglietti. Qui i turisti devono fermarsi mentre i locali che, al contrario (e mi pare anche giustamente), non pagano il biglietto (che peraltro equivale a circa una settimana di stipendio! “nota di Gianluca”) possono proseguire tranquillamente.
Transitiamo lungo una strada sulla quale ci sono dei lavori in corso. Decine di donne (e qualche uomo) stanno rifacendo il manto stradale. La cosa assurda è come lo fanno: gli uomini rovesciano sulla strada del catrame liquido; le donne vi stendono sopra dei sassolini, come per realizzare un mosaico! Il bello è che non appena tolgono i nastri che impediscono il passaggio degli autoveicoli, questi, passandoci sopra, distruggono in poche ore il lavoro di giorni: che assurdità!
Foto di rito alla Porta Meridionale di Angkor Thom, la città fortificata fatta costruire da Jayavarman VII e circondata da un lunghissimo jayagiri – muro di cinta – alto 8 metri e lungo la bellezza di 12 chilometri. La porta è sovrastata da un enorme volto di Bodhisattva Avalokiteshvara mentre, davanti ad essa, si ergono 54 statue di divinità e 54 statue di demoni.
Ci facciamo portare subito al Bayon che con le sue 54 guglie decorate con i 216 volti di Avalokiteshvara – qualcuno dice si tratti dello stesso Jayavarman VII – è uno dei monumenti più famosi e belli di tutto il sito, secondo solo all’Angkor Vat. Sulla galleria del primo livello si possono ammirare degli stupendi bassorilievi che celebrano la vittoria sui Cham conseguita da Jayavarman VII. Accanto alle scene belliche, ferve la vita delle case su palafitte, nei mercati e nei palazzi. Arrivati al terzo piano ci si trova immersi in una foresta di volti pietrificati, il capolavoro del Bayon, con l’enorme prasat di 25 metri di diametro al centro. Foto da lontano, foto da vicino, con cavalletto, con filtri, foto di particolari… Insomma: è tutto un gran immortalare la bellezza di questo tempio. All’interno del prasat una vecchina brucia e ci fa bruciare dell’incenso di fronte ad una piccola statua del Buddha. La luce fioca delle candele e l’oscurità tutt’intorno ci riporta indietro nel tempo.
Il Baphuon, nelle vicinanze, è in restauro. L’eccezionalità delle dimensioni e la mediocrità degli architetti del tempio ne hanno causato il crollo. Solo la famosa strada rialzata è visibile; il resto lo hanno smontato e, dopo averlo “ricostruito” in cemento, ora gli “appioppano” addosso i blocchi di laterite originari, secondo il metodo dell’anastilosi . Un cartello dell’Apsara Authority, l’ente che gestisce il sito e si occupa del restauro dei vari monumenti, ci spiega cosa stanno facendo e soprattutto come lo stanno facendo.
Passeggiamo sotto l’ombra degli alberi in religioso silenzio, attenti al frusciare delle foglie. Alcuni cani randagi si avvicinano per salutarci e, poco dopo, con nostro sollievo, se ne vanno. Ci sediamo ai bordi della Vasca Reale ad osservare alcune donne che con grande ardore rastrellano le foglie cadute dagli alberi e le mettono in enormi sacchi neri.
Poco più avanti c’è il Phimeanakas, un piccolo ed antico tempio su tre livelli che sorge proprio al centro dell’antica corte reale e che, manco a dirlo, rappresentante il mitico Monte Meru. Zhou Daguan, funzionario cinese che soggiornò ad Angkor tra il 1296 e il 1297 e che scrisse le “Memorie sui costumi della Cambogia”, racconta che la cupola in cima al tempio fosse addirittura d’oro. Ora molte decorazioni sono danneggiate, ma vale comunque la pena salirci, se non altro per smaltire qualche chilo di troppo.
Ai piedi della struttura ci sono alcune bancarelle di souvenir. Acquistiamo alcune stampe in carta di riso molto belle che ora abbelliscono i muri di casa nostra. Ci sono pure delle ragazze che vendono delle bibite fresche e così ci fermiamo per un po’ di ristoro. Siamo gli unici turisti, fatta eccezione per l’amico inglese conosciuto in cima all’Angkor Vat. Superata la paura ora è salito pure sul Phimeanakas. A casa, nel cassetto, giaceva immobile uno swatch nuovo di fabbrica, regalo mai usato. Me lo sono portato in Cambogia. Non lo userò mai ed ho deciso di regalarlo a qualcuno del posto. Una ragazza si siede accanto a noi: vuole venderci dei braccialetti Noi le regaliamo l’orologio e il suo viso si illumina di gioia. Le amiche fanno capannello. E’ imbarazzata: sognava un orologio ma non aveva i soldi per comperarselo. Ora ne possiede uno e sono più contento io di averglielo regalato che lei ad averlo ricevuto.
Ci spostiamo ai piedi dell’immenso albero che avvolge in un abbraccio mortale il Preah Palilay, un piccolo tempio abbandonato di cui la natura circostante s’è impossessata, fratello minore del più famoso Ta Phrom. Poco distante, il Tep Pranam, una terrazza buddhista a pianta cruciforme nelle cui vicinanze hanno costruito una casa in legno abitata da alcune monache. La statua del Buddha lì accanto non è così interessante e così tiriamo dritto.
Usciamo da sotto gli alberi e ci ritroviamo proprio sotto la Terrazza del Re Lebbroso. Collegata con quest’ultima, la Terrazza degli Elefanti. In cima alla Terrazza del Re Lebbroso si trova una statua asessuata il cui originale è custodito al Museo Nazionale di Phnom Penh. La tradizione popolare khmer sostiene che sia la statua di Jayavarman VII. Pare che il famoso sovrano avesse la lebbra e, forse proprio per questa sua condizione, si dice che abbia fatto costruire numerosi ospedali durante il suo regno. Gli studiosi, invece identificano la statua con Yama, il Signore dei morti. La supposta rappresentazione della lebbra sarebbe invece opera dei licheni.
La Terrazza degli Elefanti si protrae verso la piazza centrale con i suoi cinque contrafforti. In cima ad essa il sovrano e la sua corte osservavano le cerimonie e le parate e partecipavano alle udienze pubbliche. Mr. Sopha si riposa sotto un albero vicino. Non gli avevamo detto dove aspettarci eppure si è fatto trovare senza che noi lo cercassimo.
Prossima destinazione il Preah Khan, uno dei templi più belli affascinanti. Mr. Sopha ci ferma ad un ingresso: si tratta di quello occidentale. Lui ci aspetterà a quello settentrionale, senza bisogno di farci tornare indietro: è proprio un professionista! Simile al Ta Phrom, ma meglio conservato, questo dedalo di gallerie coperte da licheni è una delle strutture più grandi di Angkor. Utilizzato come luogo di insegnamento, ricalca il modello indiano delle grandi università buddhiste. Racchiuso da quattro cinte, è bordato da un fossato largo 40 metri. Superiamo il gopura occidentale, attraversiamo il complesso templare e ci perdiamo ad ammirare stupendi bassorilievi: i più belli, quelli delle sensuali danzatrici apsara.
Sulla via per uscire dal tempio incrociamo quattro ragazzi che suonano stando seduti a terra. Ci fermiamo ad ascoltarli, mentre tutti gli altri turisti tirano dritto. Solo guardandoli bene ci accorgiamo che non sono dei ragazzi “normali”: hanno tutti delle menomazioni: chi il gozzo, chi un braccio amputato. Pur non essendo stata con loro la vita molto generosa sono tutti sorridenti e suonano pure con grande maestrìa.
Decidiamo di andare a vedere un altro tempio, il Ta Som, prima di raggiungere l’Angkor Vat per il tramonto. Oltre all’albero che si è impossessato del prasat centrale, questo tempio non offre granché, tanto che, dopo pochi minuti, ci facciamo portare all’Angkor Vat.
Numerosi turisti, ma non solo, si apprestano a godere di una delle più belle viste di tutta Angkor. Non siamo più in cima al Phnom Bakheng ma seduti sul muretto esterno del tempio, quello che cinge l’enorme fossato posto a protezione dell’Angkor Vat. Accanto a noi una donna sfama la prole con del riso colloso. Un cane cerca senza troppa convinzione di partecipare al misero pasto e viene subito allontanato. Si avvicina a noi un bambino con gli abiti sporchi e la faccia triste. Vuole l’elemosina ma non ha il coraggio di chiedercela: si limita a guardarci con quegli occhi spenti di uno che soffre. Non possiamo rimanere insensibili alla scena: gli diamo qualche riel e invece di andarsene se ne sta lì ad osservarci con un timido sorriso. Posiziono la videocamera sul cavalletto e riprendo il più bel tramonto sull’Angkor Vat che abbiamo avuto la fortuna di vedere. L’ombra delle sera è rischiarata dai flash dei turisti. Siamo tutti rapiti da tanta bellezza. Anche i locali partecipano alla rappresentazione che la natura sta inscenando per noi.
Come tutti, ci facciamo riportare a Siem Reap.
Ieri stavo male e non abbiamo cenato ma oggi, pur stanchi, decidiamo di farci un giro per il paese alla ricerca di un buon ristorante. Consigliato dalla LP ci sediamo al Dragon Soup, un ristorante vietnamita che serve anche cibo khmer. Il posto è semplice. pochi tavoli al piano terra e altrettanti a quello superiore. Paola ordina come sempre gli spring rolls, gli involtini primavera, tipico antipasto di un po’ tutte le cucine asiatiche. Con sua sorpresa gli involtini sono crudi. Non li vuol mangiare, sbotta lei. , chiedo io divertito. risponde imbronciata. Vorrà dire che li mangerò io E infatti così accade, anche se Paola cerca di impedirmelo per evitarmi, a detta sua, problemi di stomaco. A onor di cronaca, devo dire che problemi non ne ho avuti e che tanto “di strada” non sapevano.
Trascorriamo il dopocena in un internet point a scrivere agli amici le nostre prime sensazioni di questa terra meravigliosa. Agguerrite zanzare killer ne approfittano per sfamarsi col mio polpaccio. Che mi abbiano trasmesso la malaria? Non credo: questa è la stagione secca. Ho letto che casomai i problemi ci possono essere in quella umida… Speriamo…
25 dicembre
Oggi è il giorno del Ta Phrom, “l’antenato Brahma”, edificato da Jayavarman VII, il famoso tempio abbandonato di cui la giungla si è rimpossessata con un abbraccio mortale. L’Apsara Authority ha deciso di non restaurare, se non in minima parte, il complesso: si è deciso di lasciare gli enormi alberi che si ergono dalle torri e dai portici del tempio là dove sono stati trovati quando, nel 1868, il francese Henri Mouhot (ri)scoprì il sito di Angkor. Si è scelto di lasciare tutto così com’era per evocare nei moderni visitatori l’emozione provata dai primi esploratori di Angkor. Altra ragione, forse, fu quella di evitare che il complesso crollasse, una volta rimossi gli alberi che lo avviluppavano.
Un’iscrizione alla Conservatoria di Angkor fornisce un’idea di quanto grande fosse un tempo questo complesso: all’interno della cinta muraria che lo circonda, lunga 1.000 metri per 700, vivevano fino a 12.640 persone!
Sulla copertina della LP c’è la foto di un anziano signore in abito blu che, ingobbito, ramazza la polvere davanti ad un tempio decorato da sinuose radici d’albero. Sono convinto che quella foto sia stata scattata qui e sono altrettanto certo che, una volta entrati, troveremo quell’omino curvo dal mite sorriso. Ed infatti è così: in uno dei cortili, all’ombra di uno dei prasat, seduto accanto a modesti souvenir per turisti, siede l’omino della LP. Mi avvicino e dico a Paola che è lui: è quello che sta sulla LP! In un primo momento non ci crede ma poi, quando le mostro la copertina, si convince. Anche lui è conscio della sua fama: a una donna giapponese che gli si avvicina, forse per dare un’occhiata ai souvenir, indica la copertina della LP che qualche turista gli ha regalato.
Seguo alcuni turisti all’interno di uno dei prasat. Stando in piedi in un punto ben preciso e colpendo violentemente il petto con la mano si ode un rimbombo, quasi un eco, che fa sorridere un po’ tutti.
Trascorriamo la prima mattinata all’interno del complesso. Ogni angolo è un magnifico soggetto per reflex e videocamera. Salgo sulle pietre fino a raggiungere i tetti dei porticati. Le foto dall’alto sono ancora più belle.
Saliamo in cima al Ta Keo, il tempio montagna di Jayavarman V, iniziato dopo il 975 e mai portato a termine. Due giapponesi ci fanno ridere: quello belloccio si fa fotografare dall’amico sfigato in posizioni da divo, ora con gli occhiali da sole, ora con i muscoli ben in evidenza, ora appoggiato ai prasat che si trovano sul terzo ed ultimo livello.
Nelle vicinanze lo Spean Thmor, un ponte in pietra ormai distrutto. Sfrecciamo davanti al Pre Rup, in direzione Banteay Samrè. Attraversiamo il villaggio Pradek. Le case son tutte uguali: palafitte in legno sostenute da alti pali. Di fronte a ogni abitazione si trova una grande pentola in ferro. All’interno stanno cucinando il riso, la base dell’alimentazione cambogiana, come anche di gran parte dei paesi asiatici. Qualche bufalo d’acqua, qualche cane, un biliardo e tanti bambini. Ci fermiamo davanti una palafitta, due donne con tre bambini ci osservano. I piccoli si avvicinano ma poi scappano ridendo.
Il Banteay Samrè, che sorge all’estremità del Baray Orientale, è un eccezionale tempio in piano fatto erigere dal popolo dei Samrè, da cui deriva il nome che vuol dire “Cittadella dei Samrè”. Entriamo da nord: prima una cinta e poi una seconda, all’interno della quale troviamo due biblioteche e due vasche ormai prosciugate. Un tempo, quando queste erano piene di acqua e questa circondava il vestibolo e la cella centrale, doveva essere proprio un bel vedere. All’interno di uno dei gopura meridionali un ragazzo milanese ha aperto a terra il suo enorme zaino. Vi sono contenuti numerosi obiettivi ed altro materiale fotografico. Aiutato da un amico armato di esposimetro ha coinvolto due graziose ragazze cambogiane nella realizzazione di un magnifico servizio fotografico. I volti orientali delle due fanciulle si affacciano alla finestra del gopura, il sole ne illumina i dolci tratti che risaltano sullo sfondo scuro delle pareti in laterite. Come in trance, si inginocchia, si alza, si abbassa, cambia angolazioni e scarica i rullini uno dietro l’altro. Lo osservo con attenzione, cercando di imparare qualcosa.
Sul lato orientale, un lungo viale processionale conduceva gli antichi visitatori a una scala fiancheggiata da due leoni e poi a una terrazza che forma la base del gopura. Procediamo in senso opposto. Paola si siede sulla scala e io passeggio lungo il viale alla ricerca di qualche sasso da portar via come ricordo. A metà troviamo un enorme termitaio, duro come la roccia. Sostiamo sotto il solleone prima di andarcene.
Proseguiamo verso est e saliamo sul Mebon Orientale, edificato su un’isola artificiale di 120 metri per lato in mezzo all’enorme bacino d’acqua del Baray Orientale. Quello occidentale è ancora parzialmente bagnato dalle acque che giungono dal Tonlé Sap, quello orientale invece è ormai purtroppo completamente prosciugato. Un tempo vi si accedeva solamente in barca, attraccando ai quattro pontili fiancheggiati da leoni. Nella parte più interna, sul secondo livello, si ergono otto prasat quadrati in mattoni, dedicati agli otto aspetti di Shiva, e cinque costruzioni rettangolari. Agli angoli quattro splendidi elefanti monolitici. Dei bambini ci seguono. Uno ha appesa al collo una chiave: a cosa serva non so visto che tutte le case sono delle capanne o delle palafitte. Regaliamo loro delle caramelle.
Chiediamo a Mr. Sopha se conosce qualcuno che ci possa portare domani al Fiume dei Mille Linga, poi al Beng Mealea ed infine al Banteay Srei. Contrattiamo ma non riusciamo a spuntare un gran prezzo: 55 dollari per l’intera giornata! A ben vedere, non è andata poi tanto male vista la distanza dei siti da Siem Reap e il fatto che viaggeremo in auto evitando di mangiare polvere sui traballanti remorque moto. Ci accordiamo perché ci venga a prendere alle 8.
Oggi è Natale ed abbiamo deciso di festeggiare al Bopha Angkor Restaurant, il ristorante del nostro hotel. È uno dei più carini qui a Siem Reap ed è pure consigliato dalla guida. Tutto molto buono. Il prezzo un po’ più alto della media.
26 dicembre
Come d’accordo, il nostro nuovo autista ci aspetta di fronte all’hotel. Saliamo in macchina. Questa volta non facciamo la solita strada verso Angkor: i siti che intendiamo visitare oggi si trovano lontano da Siem Reap. Prendiamo una lunga e larga strada asfaltata e ci dirigiamo verso est.
Percorriamo solo qualche chilometro e la strada, da asfaltata, si trasforma in sterrata. Le buche sono enormi: meno male che è la stagione secca; in quella piovosa deve essere realmente difficoltoso passare di qui. Superiamo macchine, veniamo superati da altre. Quasi tutti i turisti si fanno portare in auto: pochi temerari, forse due, in motorino o remorque moto. Ogni tanto veniamo sballottati di qua e di là, pur essendo seduti su comodi sedili di macchine ammortizzate. Non oso immaginare cosa debbano provare coloro che si trovano sui motocicli.
La terra è rossa, di un colore bellissimo. Ci fermiamo ad ammirare la campagna circostante e ne approfitto per prenderne un po’ come ricordo. L’erba è per lo più secca. Questa è la stagione arida, la migliore per visitare la Cambogia: mai un giorno di pioggia!
Attraversiamo dei villaggi affacciati sulla strada. Sono tutti uguali: qualche “negozietto”, alcune palafitte, nel giardino di ognuna di queste la solita enorme pentola in ferro dentro cui cucinare il riso e lavare i vestiti nell’acqua calda. Che belli i bufali d’acqua! Alcuni si rinfrescano in enormi pozze vicino alle capanne, altri brucano tranquilli nei campi.
Dopo un’ora e mezza, per percorrere appena 50 chilometri di strada, arriviamo al parcheggio dove si fermano coloro che intendono recarsi al “Fiume dei Mille Linga”, conosciuto anche con il nome di Kbal Spean.
Subito veniamo assaliti da numerosi venditori che cercano di rifilarci i soliti souvenir. . Paola, sei pronta per fare un po’ di trekking?; risponde lei. Trekking, trekking… Adesso facciamo un bel po’ di strada in salita!
Per raggiungere il fiume bisogna percorrere un sentiero che si inerpica su per la collina: nulla di pericoloso o eccessivamente stancante. La strada è ben segnalata e non ha una pendenza eccessiva, se non in certi punti. Il caldo incomincia a farsi sentire, anche se gran parte del sentiero è protetto da una vegetazione che molto assomiglia ai nostri boschi. Mi attirano degli strani alberi con rami volanti. Forse delle liane? Mi diverto a dondolare, aggrappandomi a questi lunghi tentacoli. C’è altra gente ce si dirige al fiume, altra ancora che già ritorna al parcheggio. Ci vorrà molto? Quaranta minuti in tutto. Stiamo per arrivare al fiume. Delle strane formazioni rocciose attirano la nostra attenzione. Una in particolare è proprio buffa, sembra un porcino: la base stretta stretta e il corpo bello tondo. Sentiamo il rumore dell’acqua: il fiume adesso è proprio vicino.
Kbal Spean significa “testa di ponte”, in riferimento al ponte di pietra naturale che si trova nelle vicinanze. Il letto e le rive del fiume sono scolpiti da magnifici bassorilievi raffiguranti dei linga, (da qui il nome “Fiume dei Mille Linga”). A realizzarli furono degli antichi eremiti. La vista è notevole! Poca acqua scorre nel letto del fiume per cui possiamo ammirare i bassorilievi in tutta la loro bellezza. Sparse qua e là ci sono anche delle belle sculture di divinità hindu. Che scempio! Qualcuno armato di martello e scalpello ha asportato una delle quattro stupende sculture che si trovano proprio nel letto del fiume. Chissà dov’è adesso?
Più in basso, altri bassorilievi e una cascata, parente minore di quelle del Niagara. Ce ne stiamo seduti a prendere un po’ di fresco e approfittiamo per leggere la guida.
Ritorniamo verso il parcheggio, la discesa è piacevole: un giusto premio per la precedente salita.
Ce ne andiamo ora al Beng Mealea, il “Bacino dei Loti”, uno dei templi più misteriosi e grandi di Angkor. Sicuramente anche uno dei meno visitati, visto che si trova a una trentina di chilometri da Kbal Spean e a una sessantina da Siem Reap. Costruito, si dice, da Suryavarman II nello stesso periodo dell’Angkor Vat, si pensa fosse eretto nel mezzo o sul bordo di un grande baray, ora completamente prosciugato. Davanti all’entrata, il solito villaggio di povera gente, le solite guardie. Questa volta però ci sono anche alcuni poliziotti, forse perché il sito è così lontano dagli altri, quasi a proteggere i visitatori da eventuali malintenzionati. Sulla guida c’è scritto che l’entrata è gratis ma i poliziotti vogliono farci pagare due dollari: una tangente? Dico loro che l’entrata non si paga. Mi rispondono che mi sto sbagliando e insistono che dobbiamo pagare. . I biglietti però non li hanno – ovvio! – e allora, alzando il tono, dico loro che paghiamo un dollaro e basta. Accettano.
Entriamo accompagnati da una guardia. Invece di seguire la strada rialzata in legno che costeggia il complesso, entriamo nel tempio. Se fossimo stati da soli non ci saremmo mai azzardati ad abbandonare la strada maestra: è una fortuna che il custode ci accompagni. L’interno è spettacolare: il tempio è completamente abbandonato, numerosi i blocchi di pietra caduti, magnifiche le sculture in pietra che giacciono qua e là. Le radici della giungla si sono impossessate di ogni angolo del tempio: questo è stato realmente lasciato a sé stesso. Scaliamo i blocchi di pietra. Saliamo sui muri e camminiamo a un’altezza di quattro metri dal suolo: bello, bellissimo! Interessanti le lunghe gallerie, ampie e voltate, costruite interamente in arenaria. Quelle per le quali gli architetti hanno osato impostare una falsa volta sono crollate; le altre resistono fiere alla violenza della natura. La guardia conosce tre parole di inglese e cerca in qualche modo di farci anche un po’ da guida, più che altro a gesti. Uno strano animale, simile ad un enorme scoiattolo rosso, fugge al nostro arrivo; tutt’intorno uccelli si chiamano l’un l’altro. Improvvisamente, non si sa da dove, sbucano fuori due bambini che, in silenzio e sull’attenti, ci guardano curiosi. Le solite caramelle escono dal marsupio di Paola. Ce ne andiamo dalla parte opposta di quella da dove siamo entrati e diamo una piccola mancia al guardiano che così ci accompagna all’uscita.
Torniamo indietro e ci fermiamo al Banteay Srei, un tempio hindu consacrato a Shiva. A differenza degli altri templi, non fu commissionato da re bensì da due brahmani, Yajnavaraha e suo fratello Vishnukumara. Realizzato con pietre di tonalità rosate, conserva alcuni dei più bei bassorilievi di tutta Angkor. Al contrario del Kbal Spean e del Beng Mealea, qui è pieno di gente, vuoi per la fama del tempio, vuoi per la sua relativa vicinanza alla cittadina di Siem Reap (solo trenta chilometri).
Entriamo dal gopura orientale, percorriamo la via rialzata che conduce al cuore del complesso dove si trovano le sculture delle seducenti devata. All’interno troviamo alcune comitive di turisti asiatici e dunque dobbiamo pazientare un po’ per poter ammirare in santa pace le sculture che, si dice, siano state realizzate con grande maestrìa da donne. Proprio da qui viene il nome di Banteay Srei che significa appunto “cittadella delle donne”. L’interno, racchiuso da tre mura quadrate concentriche, è meraviglioso: le due biblioteche e la piattaforma dei tre prasat sono riccamente decorati con motivi floreali e volti umani e demoniaci.
Ritorniamo verso Siem Reap, non prima di esserci fermati per l’ennesima volta per permettere al nostro autista incontinente di fare ciò che sembra non poter trattenere. mi ammonisce Paola. . Scendiamo dall’auto, pago la giornata e do la mano al sorridente incontinente! mi fa Paola. Una smorfia disgustata copre il mio viso. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere.
Chanthy!!!!!! Incredibile! Dany ci aveva detto che forse sarebbe venuto a Siem Reap ma non ci aspettavamo di trovare Chanthy. Lo vediamo che sfreccia sul retro di un motorino. Scende e ci racconta che si trova qui perché domani il suo capo si sposa e ha invitato lui ed altri colleghi al matrimonio. Gli chiediamo se c’è anche Dany. Lui no: arriverà domani. Gli proponiamo di cenare con noi ma non può: questa sera andrà ad una specie di addio al celibato.
Entriamo in hotel e chiediamo la chiave della nostra stanza ma ci dicono che ce l’hanno cambiata. . L’hanno presa e spostata in un’altra stanza, pure quella che era nell’armadio che avevamo chiuso a chiave. Protestiamo: ci avevano detto che la stanza deluxe ce la davano per tutto il resto del soggiorno ed ora ci rispediscono di nuovo in una standard puzzolente? Paola si arrabbia, io pure. Dico loro che queste cose non si fanno: non potevano permettersi di spostare tutta la nostra roba senza il nostro permesso. Se sapevano che dovevamo ricambiare la stanza, potevano dircelo la mattina quando abbiamo consegnato loro la chiave! Sono imbarazzati. Ci facciamo dare le chiavi della nostra nuova stanza. Spero per loro che non sia puzzolente come la precedente. Per fortuna non lo è e dopo un po’ l’arrabbiatura ci passa.
Ceniamo al F.C.C. di Siem Reap. Questo lo hanno messo lì per i turisti e non ha assolutamente il fascino di quello di Phnom Penh. Il cibo non è male: per questa sera hamburger e patatine anche perché l’amok trey ci ha un po’ stufato.
27 dicembre
Abbiamo visto tutto quello che c’era di importante da vedere ed è giusto che ci rilassiamo un po’: oggi ce la prendiamo con calma.
Non ci siamo messi d’accordo con Mr. Sopha per cui, quando usciamo più tardi del solito dall’hotel, non lo troviamo lì ad aspettarci. Peccato, non lo potremo salutare. Contrattiamo con un altro driver per l’escursione giornaliera, vogliamo andare a vedere il complesso Roluos, i tre templi più antichi, e poi ritornare in paese per comperare qualche souvenir.
Percorriamo la strada del giorno prima, quella lunga e asfaltata verso est, e dopo venti minuti, siamo al Lolei, il minore dei tre. Dell’antico tempio non restano che quattro torri: non sono molto interessanti tanto che siamo più attratti da una scimmietta legata a un palo della palafitta accanto.
Nelle vicinanze si ergono i resti del Preah Ko, il “sacro toro”, così denominato per le tre statue di Nandi, la cavalcatura di Shiva. I sei prasat sono disposti su due file, quelli centrali più grandi degli altri. Sugli stipiti delle porte di accesso si possono ammirare delle inscrizioni in sanscrito. Sei leoni fanno la guardia alle scale che portano al basamento sul quale si ergono i prasat. Tre tori li guardano ammirati.
Il terzo tempio, il più importante, il Bakong, dista solo pochi chilometri e in pochi minuti lo raggiungiamo. Lungo la strada che porta al tempio notiamo due classi che stanno facendo lezione. L’edificio è senza un muro, per cui possiamo osservare ciò che stanno sta facendo. Lo stesso insegnante, poco più che ventenne, si alterna da una classe all’altra e un continuo vociare accompagna la lezione di matematica. In Cambogia la scuola è a pagamento, per cui questi ragazzi appartengono a famiglie che possono permettersi di mandare i figli a scuola.
Il tempio è il più grande ed interessante di tutto il complesso e ospita nelle vicinanze anche un monastero buddhista. La struttura riproduce ancora una volta il Monte Meru. Si tratta di una piramide in arenaria di notevoli dimensioni, articolata in cinque livelli, e circondata da otto torri in laterizio e da costruzioni minori. Dall’alto si gode di una bella vista. Siamo alla nostra ultima scalata di tempio-montagna e la cosa ci dispiace e ci mette malinconia, ancora prima di andarcene.
Ci facciamo portare a Siem Reap, alla Chantiers Ecoles, una scuola specializzata nell’insegnamento delle tecniche di scultura del legno e non solo. Una guida ci accompagna gratuitamente nelle varie stanze e ci spiega cosa i ragazzi stanno facendo. Chi con un pennello copre con del gesso delle statue lignee del Buddha, chi le intarsia, chi dipinge, chi scolpisce la pietra. Sono ragazzi e ragazze del posto a cui viene insegnato un mestiere. Sono molto fortunati perché possono accedere a questa scuola prestigiosa.
I prodotti sono di ottima fattura. Il negozio allestito nella scuola è uno dei più belli che abbia mai visto: sete, quadri, sculture lignee e in pietra sono disposte in modo da colpire il visitatore. Il posto meriterebbe di essere fotografato ed entrare in qualche catalogo. Il colori sono meravigliosi: arancio, giallo, verde chiaro, blu, nero, rosso…
A piedi ce ne andiamo in centro. Il paese è deserto: tutti i turisti sono in visita ai templi e quindi passeggiamo con grande calma, alla ricerca di qualche souvenir per noi e per amici e parenti. Ci fermiamo all’Easy Speaking Cafè & Pub per mangiare qualcosa.
Tornando verso l’hotel, entriamo in alcuni negozi. Uno di questi, in particolare, ci colpisce per la bellezza degli oggetti esposti: il Senteurs d’Angkor. Tutto quanto vediamo è stato realizzato da ragazzi mutilati dalle mine antiuomo. Di fronte si trova il Psar Chaa, il mercato vecchio, dove il locali fanno la spesa e dove qualche occidentale si addentra alla ricerca di qualche souvenir o solo per annusare l’aria che si respira.
Fermiamo un driver. Gli diciamo di condurci per l’ultima volta all’Angkor Vat, di aspettarci durante la nostra visita e successivamente di riportarci in hotel, prima di portarci al Katha Bopha Children’s Hospital per assistere al consueto concerto del dottor Beat Richner – in arte Beatocello – che si svolge ogni sabato sera alle 19.15. Il concerto è solo un pretesto che il medico svizzero usa per raccontare cosa lui e i suoi collaboratori stanno portando avanti qui in Cambogia e per raccogliere fondi che li aiutino nel loro intento.
Visitiamo nuovamente l’Angkor Vat, questa volta nel tardo pomeriggio. L’angolatura della luce del sole illumina dei particolari che durante la prima visita, di mattina, erano in ombra. Nella parte orientale del tempio alcune decine di cambogiani stanno prendendo parte ad una cerimonia. Della musica suonata da alcuni di loro ne accompagna i movimenti. Al termine, dopo aver offerto del cibo (al Buddha?), liberano decine e decine di uccellini rinchiusi in delle gabbie: questi, ebbri per l’improvvisa libertà, volano in tutte le direzioni.
Cerchiamo il nostro driver perché ci riporti in hotel per una doccia veloce, il concerto ci aspetta. Non lo troviamo: forse qualcuno gli dava più soldi di quanto gli avevamo promesso e se ne andato via con i nuovi clienti. Poco male: abbiamo fatto l’andata gratis e la corsa di ritorno ci costerà di meno. Torniamo in hotel e troviamo ad attenderci Dany. Assieme ad un amico, si è fatto in macchina la strada n.6 che collega Phnom Penh a Siem Reap: ci hanno impiegato sei ore. Siamo contenti di riabbracciarlo. Gli raccontiamo che abbiamo visto Chanthy. Lo sa: si sono incontrati poco prima. Ci chiede che progetti abbiamo per la serata. Gli diciamo che stiamo andando dal dottor Beatocello, che ovviamente conosce, e ci accordiamo per cenare al Bopha assieme a lui e i suoi amici.
Come usciamo dall’hotel, ci viene incontro il driver che ci aveva lasciato a piedi all’Angkor Vat. E’ arrabbiato e, allo stesso tempo, agitato e ci accusa di essercene andati senza avvertirlo e soprattutto senza rispettare l’accordo che avevamo fatto. Come? Noi ce ne siamo andati? Sei tu che non ci hai aspettato come ti avevamo chiesto! Con la voce tremula e balbettando, cerca di difendersi. Noi gli avevamo detto di venirci a riprendere dopo due ore. In verità gli avevamo detto che saremmo tornati dopo circa due ore, ma comunque di aspettarci se ritornavamo prima, come in effetti poi è stato. Ho compreso tutto: non conoscendo bene l’inglese, non ha capito cosa gli avevamo chiesto e, in assoluta buonafede, se n’era andato alla ricerca di altri clienti per poi ritornare a riprenderci. Lo guardo bene: indossa degli abiti sporchi e rovinati e non ha l’aria di passarsela bene. Sono mortificato: io sto qui a discutere per pochi dollari che per lui valgono la vita. Va bene, non importa.
Nell’aula magna dell’ospedale c’è parecchia gente, molti turisti occidentali ma anche qualche locale. Puntuale arriva il dottor Richner col suo violoncello. È un simpatico omone. Silenzioso sale sul palco, prende una sedia, la posiziona al centro e inizia a suonare.
Terminata la prima aria si presenta. Racconta che lui in Cambogia ci era venuto già nei primi anni ’70, ancora magro e giovane. Poi, come tutti gli occidentali, è dovuto fuggire quando i khmer rossi hanno preso il potere nel 1975. Richiamato dal re Sihanouk in persona per occuparsi del sistema sanitario cambogiano, ora gestisce i tre migliori ospedali dei paese: due a Siem Reap ed uno a Phnom Penh. Chiede se in sala ci sono degli italiani. Siamo i soli ad alzare la mano, , gli rispondiamo per farla corta (tanto la cittadina dove viviamo non la conoscerebbe e quando siamo all’estero diciamo sempre di venire da Venezia. Aahh, beautiful city! ribatte lui e tutti in sala ci guardano ammirati. Spiega che il suo nome deriva dalla parola italiana “violoncello”, lo strumento che suona: lui ha modificato la parte iniziale della parola col suo nome “Beat”, per cui ora molti lo conoscono come “Beatocello”. Riprende a suonare il violoncello e questa volta anche canta in italiano un simpatico pezzo, da lui scritto, che parla del dottor Beatocello. Noi ridiamo. Gli altri, che non capiscono cosa stia cantando, ci guardano forse un po’ invidiosi.
A questo punto un breve filmato viene proiettato alle sue spalle. Lo si vede quando, qualche mese fa, durante una crisi di polmonite: molti bambini sono morti, molti di più ne hanno salvati. Ci racconta che mentre il mondo intero parlava della S.A.R.S. nessuno parlava dei piccoli morti in Cambogia. Ogni anno ne muoiono a migliaia: i fondi non bastano mai. I turisti alla fine dello spettacolo fanno delle offerte. Lo faremo tutti noi stasera. Altre le raccoglie dalle poche organizzazioni internazionali e durante i suoi viaggi mirati in Svizzera, suo paese d’origine. Ci dice che in Svizzera non è possibile pubblicizzare per televisione i numeri di conto corrente bancario ed è dunque difficile far conoscere a molte persone il conto della sua organizzazione affinché crescano le offerte. Ci racconta divertito che ha aggirato questo divieto componendo una canzoncina – “il Dott numero PC80-60699-1” – grazie alla quale riesce a far conoscere il numero di conto su cui versare le offerte. Ha anche il sito internet: www.beat-richner.ch.
Amareggiato e anche molto arrabbiato, ci confida che ha anche chiesto fondi alla Regina Elisabetta, in qualità di presidente onorario del World Children Fund. Questa gli ha risposto che i problemi sanitari della Cambogia sono dovuti alla mancanza di pulizia del popolo: . Come? spiega lui. L’arroganza di queste persone è insopportabile: qualche mese la principessa Anna è venuta qui a Siem Reap, ha alloggiato al Grand Hotel d’Angkor a 300 dollari la stanza, e non ci ha donato nemmeno un riel! sbotta lui. Tutti noi lo ascoltiamo indignati, in particolare gli inglesi, furenti con la propria Corona. Che vergogna!!!
La serata prosegue alternando un’aria a un commento. Una lezione di vita ed una lezione sulla situazione in cui versa il popolo cambogiano. Al termine qualcuno si avvicina al Dottor Richner. Uno statunitense ha delle carte in mano. Dice di essere un rappresentante di un’importante organizzazione non governativa americana. Che gli comunichi di cosa hanno bisogno e lui provvederà a farglielo avere: macchinari o medicine: non c’è problema! Il dottore lo ringrazia e gli fa presente che serve un po’ di tutto, dai farmaci più elementari ai più moderni macchinari. Lo statunitense si fa dare i numeri ai quali poterlo contattare: si farà sentire non appena ritorna negli U.S.A.
Usciamo e tutti facciamo a gara per riempire il vaso delle offerte, non ho mai visto gente fare elargizioni così importanti, la serata deve aver proprio lasciato il segno. Su di noi sicuramente. Ci dirigiamo verso la strada in cerca del nostro autista. Questa volta ci ha aspettato e anzi ci viene incontro per essere sicuro di non perderci. Quando ci vede, un sorriso gli illumina il volto. I pochi minuti che ci separano dall’hotel mi sembrano un’eternità. Penso alla serata e guardo il nostro amico che ci sta davanti: la camicia rotta, un cappellino impolverato, delle ciabatte che devono averne passate di tutti i colori… Ripenso al pomeriggio, quando lo accusavo di averci abbandonato, rifletto sulle contrattazioni per pagare soltanto un dollaro in meno. Muto per tutto il tragitto, medito sulla serata. Scendiamo dal remorque moto. Pago la corsa, anche quella del pomeriggio, e aggiungo una banconota da dieci dollari, più di quanto sono costati i due trasporti. Lo ringraziamo e ci allontaniamo. Mi volto a guardarlo per un’ultima volta: sta sfogliando le banconote e quando vede quella da dieci si gira a sua volta, mi guarda e mi fa dono di un bellissimo sorriso. Ricambio.
Dany e i suoi amici cambogiani ci stanno aspettando. Con lui sono un medico che lavora a Berlino, un professore che insegna a Kiev, un altro che è appena ritornato in Cambogia dopo aver vissuto in Germania per parecchi anni. Gente molto simpatica: il medico è il fratello del proprietario del Bopha e così ci preparano un bel tavolo in una parte tranquilla del ristorante.
Chanthy ci viene a trovare: può stare poco perché poi deve ritornare al matrimonio del suo capo. Lo ringraziamo dell’ospitalità e per averci scarrozzato a Phnom Penh e lo invitiamo a casa nostra nel caso dovesse venire in Europa.
Dany ordina per tutti. Ci chiede cosa vogliamo e gli rispondiamo che ci va bene tutto, solo se può evitare di ordinare l’amok trey: ci piace ma vorremmo assaggiare qualcos’altro. Il cameriere ci porta l’amok trey….e qualcos’altro. Io e Paola ci guardiamo e scoppiamo in una sonora risata. Gli altri ridono a loro volta.
La serata trascorre piacevole e ridiamo tutti: noi che parliamo in italiano ed in inglese, loro in khmer e in tedesco, il professore invece prova a parlarci in russo convinto, chissà perché, che lo capiamo. Gli altri lo prendono in giro. E’ un tipo buffo: due occhioni enormi e simpatici, non parla inglese, balbetta qualche parola per farsi intendere ma non capiamo niente; non comprendono nulla neanche loro che sono cambogiani. Il dottore mi dice di lasciar perdere, di non fare troppa attenzione a quello che dice, E’ un pazzo e tutti a ridere. Anche Paola sorseggia della birra. Mr. Thanh Thanh Dai, il professore, la guarda e, colpendo la guancia come a colpire delle biglie sulla spiaggia, dice che assomiglia a sua moglie. . risponde lui, ribattiamo noi. Gli amici lo prendono in giro e tutti ridiamo. Noi non capiamo il gesto che ha fatto (i russi fanno quel gesto per dire che una persona è ubriaca o ubriacona…..per mezza birra!) e ci mettiamo a ridere: questo è veramente pazzo! Incomincia a dire che è il direttore di un’associazione della minoranza cham, “The International Cham People’s Community for The National Revival”. Il dottore e l’altro espatriato lo prendono in giro.
Dany ci fa dei regali: a Paola una gonna e a me una camicia tipica cambogiana. Per il viaggio, neanche fosse chissà che, ci regalano due fusti di bambù con dentro del riso e dei fagioli neri. Ci raccontano che, quando nell’antichità c’erano delle guerre, le donne preparavano ai loro uomini che partivano per lunghi mesi questo cibo che si conservava assai bene. Assaggiamo un po’ di quello che il pomeriggio hanno mangiato loro: è buono.
Ringraziamo tutti della piacevole serata. Ci hanno offerto pure la cena. Ringraziamo Dany della magnifica ospitalità e lo invitiamo ancora una volta a venirci a trovare quando anche Bonath e Sanera saranno venute a Berlino.
28 dicembre
L’ultimo giorno di Cambogia inizia presto: il volo per Bangkok parte alle nove di mattina. Sistemate le ultime cose, scendiamo a fare colazione. Ritroviamo gli amici della sera prima, si sono alzati presto anche loro per salutarci.
Siamo tutti un po’ assonnati. In più in noi ha preso il sopravvento la tristezza di lasciare questo paese e questa gente che ci ha colpito al cuore. Se potessi starei qui in Cambogia almeno un’altra settimana. Ci sono tanti posti che mi piacerebbe vedere. Tanti i ricordi che mi porterò a casa, tante le emozioni.
Dany e l’amico che ha fatto con lui la strada da Phnom Penh ci accompagnano in aeroporto. Salutiamo il medico, salutiamo Chanthy ed il professore. Quest’ultimo, tutto agitato, ci dice di aspettare. Corre in camera a prendere della carta intestata della sua associazione e ci prega di sederci ancora un attimo che deve chiederci un favore. Mi siedo e lo ascolto. Mi dice di prendere questi fogli che ha preparato per noi. Mi spedirà via mail un testo in inglese che io dovrò stampare e spedire al nostro presidente della Repubblica e ai più importanti ministri (se lo facesse lui probabilmente non arriverebbe a destinazione). Cerco di fargli capire che per me vale la stessa cosa. Se mi manderà il testo, spedirò senza dubbio le lettere (non prima di essermi assicurato che non abbia scritto niente di “pericoloso” o sconveniente) ma non è detto che se sono io a mandarle queste arrivino di sicuro a destinazione: non li conosco mica i nostri ministri! Inizia a spiegarmi che sono delle richieste di sovvenzioni per la loro associazione: i cham sono una minoranza in Cambogia. Il medico lo ferma: , poi rivolgendosi a me . Mi viene da ridere, poveretto: non fanno altro che prenderlo in giro.
Arriviamo in aeroporto in tempo. Dany ci accompagna all’entrata. Lui che è senza biglietto non lo fanno entrare. Ci dice di sbrigarci e, anche se siamo sufficientemente in anticipo, lo salutiamo velocemente. Senza quasi accorgercene, siamo dentro e lui fuori. Lo abbiamo salutato così in fretta e senza nemmeno ringraziare il suo amico… Mi dispiace. Un’ora dopo prendiamo il volo, destinazione Bangkok. Ora ci aspettano dieci giorni in Thailandia.
Aw kuhn Dany.
Grazie anche a Gianluca per il suo certosino lavoro.
Fabio G.