Prambanan
Prambanan
Kuta beach
Goa Gajah
Goa Gajah
Galli
Galli
Buddha Borobudur
Borobudur
Borobudur
Borobudur
Tanah-Lot
Risaie
Pura Besakih
Prambanan
Prambanan
Kuta beach
Goa Gajah
Goa Gajah
Galli
Galli
Buddha Borobudur
Borobudur
Borobudur
Borobudur
Tanah-Lot
Risaie
Pura Besakih

…alla ricerca di un soggiorno “all inclusive” nelle “meravigliose” spiagge di Bali. Per anni, sentendo parlare coloro che ci erano stati, avevo immaginato Bali, e l’Indonesia tutta, come un posto ormai “infestato” dai turisti della peggior razza.

Qualche anno fa, però, sull’Isola degli Dei erano sbarcati anche degli amici di famiglia; la cosa mi aveva sorpreso, mi era parso strano che loro, proprio loro, avessero potuto visitare un “posto del genere”. Qualcosa non mi quadrava, o quei due s’erano improvvisamente ammattiti o c’era qualcosa di quei posti che ignoravo imperdonabilmente.
Deciso a risolvere questo dubbio amletico andavo a trovarli e scoprivo che Bali era sì “infestata” di turisti “tutti organizzati” ma anche uno dei posti più belli che loro avessero mai visitato.
<<Bene, si va a Bali>>, avevo detto a Paola entusiasta.
La preparazione del viaggio è iniziata, come al solito, alcuni mesi prima: già a marzo ho acquistato la guida di Bali e navigando su internet ho scoperto che sull’isola di Giava si trovano due dei più maestosi templi che l’umanità abbia mai realizzato: il Borobudur ed il Prambanan. Decidiamo così di includere anche una visita alla città di Yogyakarta – Giava – da utilizzare come base per le visite ai due candi.

Per quanto riguarda il volo acquistiamo il biglietto con Garuda Indonesia, paghiamo 855,00 Euro, tasse comprese, per la tratta Venezia – Francoforte (operata da Lufthansa) – Denpasar (con scalo tecnico a Singapore) – Yogyakarta e ritorno. Di meno non si poteva pagare, credo neanche con Uzbekistan Airlines!
Gli hotel li prenotiamo via internet: a Yogyakarta soggiorneremo nella centralissima Jalan Malioboro presso l’Hotel Mutiara per 33 US$ la doppia de luxe a notte (trasferimento da e per l’aeroporto compreso), a Bali dormiremo all’Ari Putri Hotel di Sanur per 26,50 euro la doppia a notte (l’hotel è frequentatissimo da turisti tedeschi; ogni stanza ha una terrazza, frigobar, AC e TV con il satellite; c’è pure la piscina con il c.d. sunken-bar ossia il bar in piscina che però a settembre non dà bere agli assetati “piscinauti”).

07 settembre 2002
Si parte sempre da Venezia ma questa volta il vecchio aeroporto non c’è più. Lo hanno sostituito con uno più moderno, molto bello e più grande del precedente.
L’aeroporto è nuovo e subito ce ne accorgiamo, il personale di terra è ancora in fase di rodaggio e file interminabili si accalcano ai vari banchi per il check-in. Mentre siamo in fila ci capita di ascoltare i discorsi di una signora che con il suo bambino (un po’ sfigatello e silenzioso; avete presente, uno di quei pianisti prodigio colore “carta foglio A4”) sta andando a Stoccolma per qualche giorno di vacanza. È il suo turno e le chiedono un documento del figlio; sorpresa da tale “inopportuna” domanda, risponde che non lo ha portato credendo non servisse. Morale: in aereo non li ho visti, ho visto invece due posti vuoti……in Piazza San Marco ci dovevano essere due persone in più quel giorno!
Atterriamo a Francoforte ed abbiamo tutto il tempo per fare il check-in con la Garuda; al banco accettazione troviamo un gruppo di “centurioni romani” che con le loro consorti trascorreranno 2 settimane a Bali (infatti al ritorno ce li ritroveremo sull’aereo). Mamma mia che casino: i romani “se fanno sempre riconosce’…” …e pure i milanesi, fantastico quel gruppo alla ricerca del cappuccino doc per i ristoranti di Sanur!

Finalmente si parte, l’aereo incomincia a rullare e …su tutti i monitor del B747 compaiono le immagini della pista! L’aereo ha delle telecamere sul muso e sembra di essere in cabina di pilotaggio; ci vedremo, così, sia i decolli che gli atterraggi.. e per fortuna non “proietteranno” uno di quei film catastrofici!
Siamo sul Mar Nero quando un’hostess chiede se a bordo c’è un dottore; una ragazza tedesca sta vomitando l’anima e anche quello che mangerà il giorno dopo. Si fa viva una dottoressa spagnola che cerca, invano, di bloccare “i flutti” con qualche medicina. Spostano la ragazza e la fanno distendere su tre sedili rimasti vuoti… e dove credete si trovassero questi sedili??? Ma accanto a noi, ovvio!!! E così facciamo il volo fino a Singapore sentendo un odorino niente male. Iniziamo bene!!! Per fortuna a Singapore salgono due ragazzi giapponesi che prendono il suo posto, i sedili sono un po’ umidi e non si spiegano il perché!!!!

08 settembre 2002
Atterriamo all’aeroporto Ngurah Rai di Denpasar dove ci fermeremo qualche ora prima di ripartire per Yogyakarta (Giava). Un caldo asfissiante, tipico del Sud Est Asiatico, ci assale e ci avverte che siamo finalmente arrivati.
I controlli doganali vanno per le lunghe. Notiamo due cartelli: uno ci informa che è prevista la pena di morte per chi porta droga in Indonesia, l’altro proibisce di usare il cellulare durante i controlli. Droga non ne abbiamo (la si può comunque acquistare in Jl. Legian a Kuta) ma il cellulare sì, e credendo che il cartello proibisca di introdurre il cellulare in Indonesia veniamo presi dal panico. Distraggo il doganiere facendogli alcune domande, è gentile e rispondendo alle nostre richieste si dimentica di controllarci i bagagli. Passiamo indenni, o almeno così abbiamo creduto, salvo poi meditare sul reale significato del divieto.

Usciamo dal terminal degli arrivi internazionali per raggiungere quello delle partenze nazionali. La prima immagine di quest’isola che mi rimarrà per sempre impressa sono cinque biondi surfisti australiani in compagnia dei loro surf che stanno aspettando un trasporto, probabilmente per Kuta.
Decliniamo le innumerevoli offerte per un taxi e dopo aver fatto il check-in per Yogyakarta accediamo alla sala d’aspetto dei voli nazionali. Pare di essere in un film, tipo “Un anno vissuto pericolosamente” o “Urla del silenzio”, adesso sì che siamo in Asia! Partiamo con mezz’ora di ritardo in quanto dobbiamo aspettare un gruppo di ragazzi australiani che vanno a Yogya per studio. Accanto a noi si siede uno dei loro accompagnatori; è un insegnante di bahasa Indonesia, molto simpatico e gentile, ci dà pure qualche utile informazione per il nostro soggiorno indonesiano. Lo rivedremo poi per le strade della città e in spiaggia a Kuta!

Sorvoliamo l’isola di Giava che con i suoi numerosi vulcani sbuffanti sembra quasi scocciata al nostro passaggio. In aeroporto troviamo ad attenderci alcuni autisti che aspettano noi ed un gruppo di giapponesi per portarci al Mutiara Hotel. Fatta una rapida doccia usciamo in strada: non c’è tempo da perdere, staremo a Yogyakarta solo 3 giorni.
Passeggiamo per Jalan Malioboro lungo la quale troviamo numerose bancarelle che vendono di tutto. Di turisti, in giro, ce ne sono pochi ed i locali ci osservano curiosi. Il tramonto è ormai prossimo e la fame si fa sentire; chiediamo alla reception un posto dove mangiare, noi non ne abbiamo visto uno: ci consigliano il “Legian Garden Restaurant” in Jl. Malioboro. Passiamo attraverso dei cunicoli sporchi ma una volta arrivati la vista della sala da pranzo attenua ogni nostra preoccupazione.

Il ristorante si trova al primo piano e possiede una terrazza/giardino con vista su Jl. Malioboro; i tavoli e le sedie sono in vimini e l’atmosfera ha un che di esotico. Siamo soli ma ecco arrivare una coppia di turisti… sono italiani! Un topastro lungo 25 cm, coda esclusa, si fa una passeggiata per la sala; io e la ragazza italiana ce ne accorgiamo… qualche battuta e ci ritroviamo tutti e quattro allo stesso tavolo. Sono due ragazzi di Milano in luna di miele, al loro ultimo giorno di Indonesia, domani ritorneranno a casa. Ci raccontano della loro vacanza e ci danno qualche indicazione su come spostarsi sull’Isola degli Dei.

09 settembre 2002
Ci siamo dimenticati di riconfermare il volo per Bali, dobbiamo farlo quanto prima altrimenti ci cancellano la prenotazione. Anche in Thailandia e Cina funziona così e a me, francamente, pare un’ingiustizia: se ho pagato il biglietto non possono impedirmi di partire!!! Paese che vai burocrazie che trovi… ci facciamo aiutare dalla gentilissima capo reception che ci consegna un bigliettino con la nostra riconferma.
Facciamo colazione in una sala con aria condizionata ma non appena mettiamo piede fuori dall’hotel un caldo umido ci assale: siamo nel Sud Est Asiatico!!
Ci dirigiamo spediti verso il Taman Sari (Castello sull’acqua) rifiutando le offerte di trasporto che gli innumerevoli locali ci offrono: <>.
Nella piazza Alun Alun Utara, che più che una piazza è un enorme slargo sabbioso, ci affianca un signore che subito si dimostra rompiballe: ci fa numerose domande, so dove vuole arrivare… Proseguiamo verso il Taman Sari con l’omino alle calcagna, Paola è infastidita ma io le ricordo che lo sport nazionale indonesiano è quello di andare dietro ai turisti stranieri!

<>, <>, <<è più breve di qua>>, <<fidatevi, conosco una scorciatoia>> e… TRAKK!!
Per badare all’omino infilo il piede in una buca e la caviglia si gira come fosse quella di “Pinocchio”. Paola non si accorge di quanto successo e tantomeno il “simpatico” locale che continua a blaterare: <<Bagghio, Totti… .>>.
Il dolore è insopportabile e sono costretto sedermi; decidiamo di rimandare la visita al Taman Sari e di tornare indietro. La caviglia è già gonfia; è meglio prendere un biciak, cosa che non avrei voluto mai fare ma ora ne sono costretto. Fermiamo il primo che incrociamo e contrattiamo la “bellezza” di 3.000Rp per circa 1 km di strada. Io non sono leggerino e salgo sul biciak assieme a Paola, il pedalatore è un omino di neanche un metro e mezzo, pesante 40 kg e con un’età, credo, superiore ai settanta!!!
Mi sento una “…. ferita”, fa una fatica biblica e pesta su quei pedali con tutta la forza che possiede. Quando c’è un po’ di salita è costretto a scendere ed a spingere; per di più io, per stemperare l’atmosfera di sofferenza, gli chiedo se ha bisogno di una mano. Tale mia affermazione suona più che altro come una presa in giro… me ne accorgo e taccio per tutto il resto del percorso.

Come se non bastassero il caldo, l’età avanzata, il fisico ormai logorato e due turisti non proprio leggeri, ci si mettono anche i sensi unici a complicare la vita già disgraziata di questo sorridente indonesiano. Jalan Malioboro è una strada a senso unico e il nostro amico è costretto a “circumnavigare” il globo per sbarcarci al nostro hotel. Finalmente arriviamo, scendiamo e lo paghiamo dandogli il doppio di quello che aveva chiesto; almeno la mia coscienza è un po’ più sollevata.
La gentile signora alla reception ci chiede <<già tornati?>>, sorriso di circostanza e dritti in camera. Non abbiamo tanto tempo qui a Yogya, stringo i denti ed usciamo di nuovo passando davanti alla signora di prima che ci guarda perplessa.
Dopo aver comprato una pomata in una drogheria (non mi ha fatto niente, era una pomata per il torcicollo) contrattiamo con Supri Hadiyanto, di professione “driver”, per un passaggio fino al Borobudur. Spuntiamo 200.000Rp per mezza giornata, di meno non si riesce anche perché sembra che tutti i driver della strada si siano messi d’accordo per chiedere almeno questa cifra. L’australiano ci aveva detto che 100.000Rp erano sufficienti, forse per lui che parla bahasa!!!

Supri è un tipo strano, occhiali ray ban come si portavano da noi negli anni ottanta, immancabile camicia bianca e una flemma degna di un inglese. Ad ogni incrocio dei mendicanti si avvicinano al suo finestrino e lui, senza neanche guardarli, allunga loro qualche spicciolo.
In tre quarti d’ora arriviamo al Borobudur: maestoso. Che emozione essere di fronte a qualcosa che avevo visto solo in foto e che già allora mi era parso eccezionale.
Subito veniamo “assaliti” da alcuni venditori ambulanti che ci vogliono vendere di tutto, comperiamo soltanto una bella guida fotografica del sito e promettiamo agli altri, per levarceli dai piedi, che compreremo qualcosa terminata la visita. Tutti ci urlano i loro nomi convinti che, una volta usciti, ce li ricorderemo.
Alcuni ragazzi indonesiani in gita ci salutano e ci fanno capire che vorrebbero una foto con noi. Li accontentiamo e da quel momento i nostri nomi verranno urlati di tanto in tanto a tutta la pianura.

Intorno al 780 d.c. i potenti sovrani Shailendra ordinarono la costruzione di questo “santuario sulla montagna”, ad immagine e somiglianza del mitico monte Meru, che avrebbe dovuto oscurare la bellezza dei tempi costruiti fino ad allora. Sembra ci siano proprio riusciti ed è così che mi sbizzarrisco con la mia nuova macchina fotografica mentre Paola mi aiuta nel cambio degli obiettivi: sembro un reporter impazzito.
Il tempio fu oggetto di pellegrinaggio solo per cent’anni, poi, a causa probabilmente dell’eruzione del vulcano Merapi, la zona fu abbandonata e così anche il complesso che fu ricoperto da una folta vegetazione tropicale. Solo nel 1814 venne riscoperto per opera di un funzionario inglese e fu Sir Stamford Raffles che ne ordinò il parziale restauro. Per altri cent’anni subì numerosi saccheggi e solo nel 1907 sotto l’amministrazione olandese iniziarono i lavori di restauro che riportarono il Borobudur all’antico splendore. Saliamo in senso orario, come fanno i buddisti, ed ammiriamo gli infiniti rilievi che decorano le pareti del complesso. <<Fabio… Paola>> i ragazzi di prima si fanno sentire.

Proseguiamo nell’ascesa del tempio, sempre in senso orario e percorrendo tutti i livelli della “montagna”. Siamo in cima, intorno a noi 72 stupa traforati contengono altrettanti Buddha con il Dharmacakra-Mudra, la simbolica posizione delle mani. Solo due, scoperti, sono riscaldati dalle luce del sole. Al centro, in cima, sorge lo stupa principale, alto otto metri e privo di decorazioni, simbolo perfetto del Buddismo Mahayana, la corrente detta del “grande veicolo”. Secondo una credenza popolare colui che riuscirà a toccare il Buddha attraverso il reticolato dello stupa vedrà esaudire un suo ardente desiderio. Ci provo e ci riesco con facilità, speriamo si avveri quanto immaginato. Tutt’intorno il panorama è stupendo.
Mi siedo per realizzare dove sono, penso all’Italia, all’Asia, all’Indonesia, a Giava e poi al Borobudur. Annuso l’aria, mi guardo intorno, tocco ogni cosa… è vero, è vero, siamo qui!! <<Paola… Fabio>>, di nuovo i ragazzi. Altre due indonesiane si fanno fotografare con noi. A malincuore scendiamo, ma non vogliamo andare via, ci sediamo ai piedi di questa meraviglia e rimaniamo ad osservarla scoprendo nuovi particolari.

È ora di andare, due templi minori ci aspettano come pure i venditori ambulanti che ci avevano bloccato. <>, <>… <>, <>. A me non danno fastidio, Paola dopo un po’ si innervosisce, le dico di far finta di niente e di non preoccuparsi: sono insistenti ma non cattivi. Alla fine cedo, o meglio l’avrei comunque comprato… il Buddha del Borobudur, ne faccio raccolta dei posti in cui sono stato.
Visitiamo il museo e poi dritti verso il minivan. Siamo costretti a passare tra le bancarelle. L’idea è ingegnosa: si è costretti a camminare attraverso un passaggio obbligato, una sorta di “gioco dell’oca” o meglio “fila davanti ad un museo”; tutti cercano di venderci qualcosa ma noi, questa volta, non cediamo.
Il nostro driver ci porta quindi al Candi Mendut e poi al Candi Pawon. Sono due templi minori, carini, da visitare ma niente a confronto alla maestosità del Borobudur. Lungo la strada ci fermiamo a vedere delle piantagioni di tabacco e di riso (di quest’ultimo ne vedremo a migliaia a Bali).
Torniamo in città ed essendo ancora chiaro ci dirigiamo verso il Taman Sari che alla mattina non avevamo potuto vedere perché “ostacolati”. Tutti sanno la strada e vogliono accompagnarci, la strada la sappiamo anche noi e quindi proseguiamo.

All’entrata del Palazzo del Sultano ci avvicina una “pseudoguida” che lavora nel Kratom. <> ci dice, <> gli rispondiamo; allora si offre di farci da guida per il parco reale di Taman Sari. Ci penso su, <>, non chiede niente… gli daremo quello che ci sentiremo.
Ci porta nei vicoli del Pasar Ngasem, il mercato degli uccelli e data l’ora il mercato è deserto. Saliamo sulle mura dell’antico complesso per avere una vista d’insieme di ciò che ci circonda. È tutto bello, anche se mal conservato. La nostra guida ci porta attraverso passaggi impensabili e senza aspettarcelo giungiamo alla Sumur Gumuling Masjid, un’antica e bella moschea che ha perso il tetto in seguito ad un terremoto. La grande porta del Taman Sari, il Pintu Agung, è già chiusa ma il nostro “Cicerone” conosce un’alternativa; facciamo il giro del complesso ed arriviamo in un cortile nel quale alcuni ragazzi giocano a pallavolo. Saliamo su una piccola gradinata in ferro ed… ecco le piscine del Taman Sari!

Questa è la parte più bella di tutto il complesso e noi possiamo vederla dall’alto senza pagare il biglietto. Alla fine del “tour” ci porta in un bel negozio di batik: me lo aspettavo!! In Indonesia un batik bisogna comprarlo, decidiamo di farlo ora tanto più che gli oggetti esposti sono molto belli. Ne scegliamo uno e, dopo aver contrattato il prezzo, lo paghiamo 150.000Rp (1/3 di quello che ci aveva chiesto l’artista) che data la fattura del batik acquistato ci sembra un buon prezzo, per noi e per lui (nota: nei batik veri il disegno si vede da entrambe le facce, se non è così non è autentico). Uno ci basta e ce ne andiamo, la guida pensa di aver trovato due spendaccioni e ci propone di acquistarne degli altri nel negozio di sua madre. Decliniamo il gentile invito e ci rifacciamo portare al punto in cui lo avevamo trovato; dato il bel giro fatto (che non avremmo mai potuto fare da soli: certi posti erano veramente introvabili) gli diamo 20.000Rp e lui contento ringrazia. <>, questa sarà la frase che ci accompagnerà tutta la vacanza.
Rientriamo in hotel, doccia e via di nuovo, alla ricerca di un posto dove cenare. Troviamo un piccolo ed accogliente warung, serve pure del buon cibo anche se i migliori involtini alle verdure li abbiamo comunque assaggiati in uno di quei chioschi ambulanti che si trovano nella trafficatissima Jl. Malioboro.

10 settembre 2002
Oggi tocca al Prambanan, un candi situato a qualche chilometro dalla città, esempio di arte religiosa indù giavanese. Prima però andiamo al Palazzo del Sultano (Kratom): vista la Città Proibita a Pechino questa ci sembra la casetta della Barbie, o il fortino dei playmobil (per i maschietti).
Ci aggiriamo nelle corti del palazzo, un centinaio di anziani signori vestiti di blu e seduti sotto un portico mi urlano perché voglio fotografarli. Assistiamo ad un concerto dimostrativo di musica gamelan: la musica non è bellissima ed è molto diversa da quella classica come la intendiamo noi, tutto è ritmano, quasi ossessivo. Ci facciamo accompagnare dalla solita “guida ufficiale” che conclude dicendoci che noi siamo ricchi e che quindi gli possiamo dare qualcosa. Gli ricordo che ci aveva assicurato che il suo servizio era gratuito, risponde che siamo ricchi….eccoti 5.000Rp, sei furbo sei!!! Ritorniamo al parcheggio dell’hotel, ritroviamo Supri che, dopo lunga contrattazione, ci accompagnerà al Prambanan. Prima però ci fermiamo al Candi Sari: il piccolo tempio è carino ed è circondato da alcune casupole. Un’opera d’arte in mezzo alle galline, non sanno quello che hanno, o forse sì, ed è bello proprio per questo.

In pochi minuti siamo al Prambanan e per entrarvi paghiamo 63.000Rp a testa: le cose importanti te le fanno pagare “care” da queste parti!!!!
Il complesso fu costruito durante la seconda metà del IX secolo dalla dinastia induista dei Mataram per ricordare la vittoria sulla dinastia degli Shailendra. A causa del misterioso spostamento della sede della dinastia a Giava orientale anche il Prambanan, come il Borobudur, fu abbandonato dando inizio ad un lento ma inesorabile decadimento.
La parte interna del complesso si trovano tre grandi candi il più importante dei quali è dedicato a Shiva, gli altri a Brahma e Vishnu. Di fronte a questi sorgono tre santuari, rivolti verso est, che un tempo ospitavano le cavalcature delle tre divinità: il toro di Shiva, l’anatide di Brahma e l’aquila di Vishnu.

Il sito è bellissimo anche se tutti i piccoli, si fa per dire, candi che circondavano il complesso principale sono andati distrutti. Le pietre sono ancora lì, forse un giorno le assembleranno.
Passeggiamo per il sito sotto un sole cocente, c’è poca gente, scattiamo fotografie da ogni angolo, ci riposiamo all’ombra degli immensi monumenti.
Proseguiamo il nostro giro e ce ne andiamo al Karatom Ratu Boko, un antico palazzo reale che si trova su un’altura. I ragazzi di Milano ne erano rimasti delusi: ci avevano detto che l’unica cosa bella era la vista sulla piana del Prambanan. Scaliamo gli innumerevoli gradini sotto un sole sempre più opprimente, arrivati in cima un guardiano ci porge una coca cola dissetante compresa nel prezzo (63.000Rp anche qui, praticamente buttate via) ed un attestato di presenza. Questo proprio lo volevo, arrivato in hotel l’ho subito protocollato… nel cestino!! Il palazzo è quasi completamente distrutto ma i pochi resti rimasti ci danno un’idea di come doveva essere in origine.

Raggiungiamo la jeep, dobbiamo ritornare in hotel, farci una doccia e ritornare al Prambanan per la cena ed il balletto Ramayana. Su www.travelindo.com avevo letto che c’era la possibilità di vedere questo spettacolo, avevamo prenotato 2 biglietti VIP per 100.000Rp l’uno, dovevano consegnarceli in hotel.
Il giorno prima parliamo con la solita signora della reception per avere i nostri biglietti, telefona lei per noi. Le dico che vogliamo i biglietti più la cena e il trasporto, il tipo alla cornetta mi chiede se voglio annullare la mia prenotazione e gli rispondo di no, riparla con la signora che scuote la testa, me lo ripassa, gli riconfermo che voglio i biglietti, riattacchiamo. La signora mi dice che non posso avere la cena e il trasporto per il prezzo indicato sul listino, <>. Finalmente ho capito: la signora e l’uomo al telefono parlano per due agenzie diverse; per avere i biglietti, la cena ed il trasferimento con l’hotel, devo prima cancellare la mia prenotazione fatta su internet. Ritelefoniamo e finalmente la “soap opera” finisce: avremo il nostri biglietti con cena e trasporto!
Partiamo puntuali alle sei con il pulmino dell’hotel, assieme a noi ci sono due messicane: metto in pratica il mio spagnolo. Una delle due sta studiando e lavorando nel Sud Est asiatico da alcuni anni, prima era a Jakarta (invivibile e sporca) mentre ora abita a Singapore (ordinata ma molto afosa).
L’autista è un fan di Montoya ed arriviamo così in un battibaleno.
Abbiamo la cena pagata, ritiriamo i biglietti VIP (non ne avevo mai avuti di così importanti!) e veniamo accompagnati al tavolo. Rimaniamo tutti e due a bocca aperta: ci troviamo in un giardino, i tavoli sono illuminati dalla flebile luce di candele, il buffet offre gustosi piatti indonesiani, i grilli ci allietano con il loro canto e.… di fronte a noi si erge maestoso il Prambanan illuminato!!!!

Il momento è indescrivibile, tutti parlano sottovoce per non rovinare l’atmosfera meravigliosa che si è venuta a creare. Non ce ne vogliamo più andare da quel posto, ci ricorderemo per sempre di questi momenti.
Il balletto sta per iniziare e così ritiriamo la nostra bibita “omaggio” (compresa nel prezzo del biglietto VIP) e veniamo accompagnati nel nostro posto in seconda fila. Siamo seduti su delle poltrone mentre gli altri “poveretti” sono appollaiati su gradoni di marmo. Lo spettacolo è così bello che le due ore volano via velocemente. Gli attori ed i ballerini sono bravi, la musica è meno alienante del solito, il Prambanan si trova dietro il palco… tutto è bellissimo. Terminato lo spettacolo ci attardiamo a scattare alcune foto, ritorniamo al pulmino e l’autista pazzo vuole battere il record dell’andata. Ce la fa e ce la facciamo anche noi ad arrivare sani e salvi in hotel!

11 settembre 2002
A malincuore salutiamo Yogyakarta, ci dispiace lasciare questo posto, che a noi è piaciuto tantissimo, ma tutti parlano dell’Isola degli Dei come di un luogo meraviglioso.
Andiamo al Pasar Beringhajo, molto poco turistico, per le ultime compere e subito dopo ci facciamo accompagnare in aeroporto. Ci arriviamo con largo anticipo e mentre aspettiamo abbiamo l’occasione di conoscere due anziani signori inglesi. Lei ci sente parlare e siccome ha una figlia sposata con un italiano riconosce lo “strano” idioma, ci saluta ed iniziamo così una piacevole conversazione. Un’altra figlia lavora a Bali, non la vedono da più di un anno e sono emozionati al pensiero di riabbracciare lei ed i nipotini.
Si parte, destinazione Denpasar.
Atterriamo puntuali dopo neanche un’ora di volo; all’uscita tutti ci offrono un trasporto per l’hotel. L’australiano conosciuto all’andata ci ha detto di rivolgerci invece all’ufficio dei taxi, quello che si trova fuori dall’aeroporto.
Paghiamo 55.000Rp per raggiungere il nostro hotel a Sanur. Comprare il biglietto a tariffa fissa è una cavolata, prendendo un taxi normale a tassametro oppure contrattando con un driver abusivo si risparmia di sicuro: al ritorno ne pagheremo 40.000.

L’albergo è l’Ari Putri Hotel in Jl. Sanur Beach nel banjar (villaggio) Semawang, a sud di Sanur. Ci danno una stanza al secondo piano con un grande terrazzo, sistemiamo le nostre cose e corriamo verso la “bella e bianca spiaggia di Sanur”. Sorpresa: non è bianca e tantomeno bella!!!!! Per evitare che le onde tipiche di questa parte di Bali disturbino il bagno dei turisti hanno costruito una sorta di diga con dei blocchi di cemento. Le onde non ci sono più e l’assenza di moto ondoso ha permesso il proliferare di numerose alghe; il bagno è pressoché impossibile… bel lavoro ragazzi!!!!
A Paola viene una crisi e mi accusa di avere scelto un brutto posto (Sanur invece di Kuta), io le rinfaccio che è lei che ha voluto prenotare l’hotel su internet senza quindi aver modo di vedere il luogo mentre io volevo venire a Bali e scegliere sul posto. La vacanza sembra compromessa, l’idilliaco amore finito… camminiamo in silenzio, percorriamo tutta la spiaggia alla ricerca della “bianca sabbia”… niente! Ci guardiamo, lo sguardo corrucciato si trasforma in un sorriso… la bufera è passata, la vacanza è salva. Sanur è un posto tranquillo, molto diverso dalla caotica e tanto bistrattata Kuta, e anche se non c’è granché da fare vi trascorreremo con piacere quasi tutte le nostre serate balinesi.

Ritorniamo in albergo e dopo una doccia rinfrescante decidiamo di andare a Kuta per vedere con i nostri occhi quella cittadina che è descritta, da alcuni, come un luogo da evitare. Prendiamo un taxi ed il tassista ci dice di aver portato un anno fa un calciatore italiano, gli chiedo il nome e lui mi risponde Paolo Maldini. Gli dico che è il capitano del Milan e della nazionale, lui si esalta ancor di più, a me sorge il dubbio che qualche italiano burlone gli abbia fatto uno scherzo. Ve lo immaginate Paolino su un taxi indonesiano e non su una lussuosa mercedes con autista? Tutto può essere, però…
Arriviamo a Kuta, ci sono tantissimi australiani, riconosco l’accento sentito due anni prima quando sono andato “Down Under”. In Jl. Legian ci sono bellissimi negozi che vendono T-shirt da surfisti: Billabong, Mambo, Ripcurl, Quicksilver le marche più note. Sui marciapiedi (o meglio su dei lastroni che coprono i canali delle fogne, ne trovi integro uno ogni tre) ragazzi indonesiani ci offrono droga (a noi???) o trasporti per il giorno dopo.

Cerchiamo un ristorante dove cenare e mentre guardiamo un menù esposto lungo la strada ci accorgiamo che è quello del ristorante consigliatoci dai ragazzi di Milano, il Ketupat Restaurant.
Percorriamo la stradina buia che porta sul retro, in un incantevole giardino illuminato dalla luce tremula delle candele cenano dei turisti. Il ristorante è bellissimo: l’edificio principale è in legno, poche persone al suo interno, quasi tutti siedono fuori, intorno ad una bella piscina. L’ambiente è raffinato: si può anche magiare su dei palchi di bambù, scalzi e seduti su degli enormi cuscini. Il menù offre ogni ben di Dio, siamo in crisi, non sappiamo cosa scegliere; la cena è ottima e paghiamo pure poco.
Giusto il tempo di una rapida passeggiata lungo Jalan Legian che siamo seduti in un taxi: diciamo all’autista di portarci all’hotel. <>, <> gli rispondo io, <>. Lui ribatte che alla sera c’è un extra perché c’è buio, gli rispondo che non mi interessa e che più di 30.000Rp non gli darò, all’andata abbiamo pagato 26.000Rp. Insiste e ci chiede 50.000Rp, gli rispondo picche e allora lui aziona il tassametro.

Arriviamo a Sanur, in prossimità della via che porta al nostro hotel, ma tira dritto. Lo avverto che quella era la direzione giusta ma lui risponde che mi sto sbagliando. Io scemo non sono e allora mi arrabbio, incomincio a dirgli di non prenderci in giro, la strada noi la sappiamo e lui la sta allungando apposta. Mi ripete che non è così, gli rispondo che ci sta imbrogliando. Arrivati all’hotel, che si trova nella zona meridionale del paese, dopo averlo percorso tutto da nord a sud, il tassametro segna 55.000Rp, più del doppio di quanto pagato all’andata. Faccio scendere Paola e gli porgo 30.000Rp, quanto avevo detto all’inizio, mi chiede altri soldi e allora lo mando a quel paese. A ripensarci potevo anche non dargli niente, a quell’imbroglione è andata anche troppo bene!!! E questo sarebbe un esempio della “cortese gente di Bali… “?
Rientriamo in stanza, alla C.N.N. c’è la diretta da New York per la commemorazione delle vittime dell’11 settembre: negli USA deve ancora sorgere il sole e le inquadrature sono di una “Ground Zero” deserta, vado a dormire.

12 settembre 2002
La prima colazione ci permette di conoscere gli altri clienti dell’hotel; sono tutti tedeschi tranne una coppia di francesi. <> <>, sembra di essere in Austria!
Usciti dall’albergo veniamo fermati da Agung – che noi chiameremo in un altro modo… – il quale ci indirizza il tipico saluto indonesiano: <<transport, transport?>>. Dopo una breve contrattazione fatta un po’ con lui un po’ con il proprietario del mezzo, partiamo alla volta di Denpasar, la capitale amministrativa dell’isola.
Ci fermiamo al Museo di Bali, un palazzo diviso in vari edifici ed adibito a museo nel quale si possono ammirare numerosi oggetti dell’arte balinese: dipinti, maschere, armi, utensili. All’interno veniamo perseguitati da venditori ambulanti che cercano di venderci qualche oggetto artigianale. Una donna ci porge una statuina, <> ci avverte seriosa; Paola le spiega che non si può portare avorio in Italia… <> ribatte lei ridendo. La fregatura è in agguato, la lasciamo perdere.

La visita prosegue nell’adiacente Pura Agung Jagatnatha, un tempio molto modesto e di recente costruzione (anni Sessanta). Per entrarvi siamo costretti a noleggiare un sarong e l’immancabile fascia gialla; il custode all’entrata ci ha chiede 5.000Rp mentre all’australiano arrivato nel momento in cui noi stiamo pagando solo 1.000! Per entrare nei luoghi sacri bisogna avere i pantaloni oppure la gonna lunga; indossando dei bermuda si è costretti a noleggiare o portare con sé un sarong e la fascia gialla da annodare intorno alla vita.
Usciamo e facciamo una passeggiata fino al monumento ai defunti nella Piazza Puputan; questo nome che a qualcuno può sembrare ridicolo ricorda però una serie di eventi tragici per i balinesi. I puputan infatti sono delle lotte suicide che in più occasioni i balinesi fecero contro gli olandesi; gente inerme o armata di pugnale si scagliava contro le truppe coloniali armate dotate di mitragliatrici e fucili.
Lasciamo la città alla volta del Pura Sada di Kapal. La guida lo descrive come un magnifico santuario della dinastia reale Mengwi, a noi non piace un granché. Decidiamo di comprare dei sarong e delle fasce per non doverli noleggiare ogni volta; siamo alla prima contrattazione balinese e consigliati dal nostro autista, comperiamo due sarong e due fasce per 50.000Rp. Il driver ci dice che è un buon prezzo; più basso di quello di partenza lo è ed alla fine paghiamo quanto pattuito. Scopriremo però nei giorni successivi che per quel tipo di sarong potevamo dargli 5.000-10.000Rp: bel amico, l’autista!

Questo piccolo aneddoto per far capire, a chi crede che l’autista che lo sta portando in giro sia un amico, che questo non è assolutamente vero, e che sta invece dalla parte dei suoi connazionali, com’è ovvio e giusto, e non da quella dei turisti. Parlando con i ragazzi incontrati a Yogyakarta questi ci avevano consigliato il driver che li aveva accompagnati in giro per Bali; ci avevano detto che era diventato un buon amico, che li aveva portati in negozi o ristoranti dove si pagava poco – <> – e gli aveva chiesto “soltanto” 40US$ al giorno. Noi abbiamo pagato sempre la metà o poco più di quanto chiesto ai ragazzi milanesi, ed il nostro autista non era affatto un amico.
Arriviamo ad uno dei templi nazionali, il Pura Taman Ayun. Edificato nel XVIII secolo è il più vasto tempio domestico giunto fino a noi, una splendida testimonianze del glorioso regno di Mengwi. Il tempio è carino e circondato da un ampio fossato, con uno splendido wantilan e numerose infiorescenze nella parte posteriore. Il nucleo centrale del tempio non è visitabile e così la nostra visita, disturbata ahimè da un gruppo di olandesi discotecari, non richiede troppo tempo.
Chiediamo al nostro autista di visitare la foresta delle scimmie di Sangeh ma lui (che da quel momento soprannomineremo “***** della vita” o “il lento” visto che oltre la terza marcia, in macchina, non andava) ci sconsiglia vivamente di visitare quel posto perché le scimmie sono <>.

Ci porta invece alla foresta delle scimmie di Alas Kedaton. Qui, dopo aver pagato il biglietto d’ingresso, veniamo fermati da una “guida ufficiale” che incomincia ad argomentare ed a raccontarci quanto queste pesti pelose siano pericolose se non si è accompagnati. Ma allora… i macachi di Sangeh, cosa sono, dei “King Kong” assetati di sangue!?!? Siamo costretti a farci accompagnare da questa ragazza che in qualche occasione, a dire il vero, ci aiuta a scacciare gli esemplari più grossi ed intraprendenti. Il secondo fine c’è sempre e ciò incomincia ad irritarci visto che tutti ci avevano magnificato la gentilezza e cortesia del popolo balinese. Per secondo fine intendo che al termine della visita, durante la quale abbiamo visto dei pipistrelli giganti svolazzare tranquilli tra le fronde degli alberi, la solerte guida ci ha invitato a comprare qualcosa nel suo negozietto. Vista l’insistenza della ragazza e devo dire anche la bellezza di qualche oggetto, ne abbiamo comprato comunque uno.
Ci dirigiamo verso il Tanah Lot per ammirare lo stupendo tramonto tanto reclamizzato in tutte le guide e cartoline. Lungo la strada notiamo un assembramento di persone, chiedo ad Agung di cosa si tratta e lui mi risponde che si sta svolgendo un combattimento di galli illegale; quelli fatti durante le cerimonie nei templi sono, al contrario, ammessi.

Gli dico di fermarsi ma il “++++ della vita” colpisce ancora: ci dice che è pericoloso e che se arriva la polizia tutti scappano ed a volte, nella foga, si verificano degli incidenti. Io mi trattengo dal mandarlo a quel paese e gli dico che se vuole può parcheggiare più avanti, lontano dal luogo “pericoloso”, ma che io devo assolutamente scendere! “Il lento” accosta 200 metri più avanti, Paola rimane in macchina mentre io, armato di macchina fotografica, scendo e mi dirigo spedito verso quel gruppo di persone.
Sono l’unico occidentale, decine di teste mi fissano, non con la semplice curiosità per lo straniero. Sono pur sempre in un luogo dove si sta svolgendo qualcosa di illegale, sto attento che qualcuno non si avvicini troppo e mi sfili, magari, il portafoglio dalla tasca dei pantaloni. Più il tempo passa e più mi sento a mio agio in mezzo a questa gente, osservo in silenzio quanto mi accade intorno e vengo rapito dall’atmosfera del momento.
Lo spettacolo, che a qualcuno può sembrare cruento, ha comunque un suo fascino. I proprietari dei galli tengono con le mani i loro animali e fanno sì che questi si becchino a vicenda in modo da eccitarsi ancora di più. Le persone attorno discutono sulle capacità dei combattenti e scommettono sul vincitore. Nei combattimenti, quasi sempre, muore anche il vincitore cioè il gallo che cede per secondo. L’artiglio che viene legato ad una zampa del gallo è talmente affilato che basta una sola zampata per procurare una ferita mortale. Il gallo perdente viene spennato e dato in premio al padrone di quello vincente.

Arriva anche Paola, arrivano altri turisti tutti accompagnati dai loro driver – quelli sì che non sono “****** della vita”. Attorno al campo di combattimento ci sono donne che cucinano il babi guling – il maialino arrosto – un “tuttologo” che non smette mai di parlare e un gruppetto di uomini che giocano ad una sorta di roulette. Ce ne andiamo, il Tanah Lot ci aspetta.
Parcheggiamo il nostro minivan e percorriamo una strada che in leggera discesa porta al tempio. Ai bordi numerosi negozietti attirano l’attenzione dei turisti “tutti organizzati”, non la nostra. Scendiamo degli scalini che portano al mare e subito notiamo con dispiacere che il panorama è rovinato da un enorme ponte in ferro che alcuni indaffarati operai stanno costruendo per realizzare una diga che ripari il Tanah Lot dalle onde spumeggianti che si infrangono contro la sua fragile base.
Il tempio, infatti, una volta salita l’alta marea, è completamente circondato dall’oceano. Questo luogo è famoso per il bel tramonto al quale si può assistere comodamente seduti in uno dei tanti bar costruiti sulle rocce vicine, ma dato i lavori in corso la visuale è sicuramente rovinata; decidiamo così di anticipare il nostro ritorno a Sanur. Arrivati, ci accordiamo con “il lento” per il giorno seguente.

13 settembre 2002
All’uscita dell’hotel troviamo Agung e partiamo alla volta di Klungkung o meglio Semarapura, Klungkung in realtà è il distretto. Passiamo senza quasi accorgercene attraverso i cosiddetti paesi degli artigiani: Batubulan, Celuk, Sukawati, Batuan. Osserviamo dal finestrino, tanto noi non compriamo niente, la merce esposta lungo la strada: di bella fattura le sedie ed i divani in bambù, ma troppo grandi per portarseli dietro.
Arriviamo al Puri Semarapura, nel parcheggio troviamo due tedeschi visti in aereo, la felpa invernale se la sono finalmente tolta…

Agung ci aspetta fuori e noi entriamo in questo stupendo complesso: sul lato meridionale della piazza i due padiglioni Taman Gili (isole giardino), al centro il Bale Kembang (padiglione galleggiante) dal soffitto finemente dipinto, in un lato il Bale Kertha Gosa, la corte di giustizia, dove si trovano raffigurate storie mitologiche: numerosi sono i mostri le cui immagini, credo, avrebbero dovuto spaventare i condannati in attesa di giudizio. All’interno notiamo due italiani accompagnati da una guida, facendo finta di niente ci avviciniamo ed abbiamo così modo di sentire le spiegazioni che lui da loro. Annesso si trova anche un piccolo museo. Scendiamo verso il mare, verso Goa Lawah, una grotta sacra per i balinesi, abitata da migliaia di pipistrelli. In questo preciso momento si sta svolgendo una cerimonia e tutti i fedeli sono seduti per terra in attesa di essere spruzzati con dell’acqua benedetta. Mi avventuro per un po’ nella grotta, al cui interno si ergono tre possenti meru ed il cui soffitto è interamente coperto da pipistrelli, ma l’odore acre che emanano questi “topi volanti” mi convince ad uscire immediatamente.

La cerimonia termina di lì a poco, facciamo un giro per le bancarelle e poi due passi lungo la spiaggia nera di fronte, la più bella vista a Bali.
Un’anziana signora si avvicina lentamente, ci sorride gentile, i denti che si dribblano tra loro, ci fa tenerezza e le compriamo due collane di sandalo profumato per la “stratosferica somma” di 2.000Rp.
Siamo al Pura Besakih, forse il più importante tra i templi nazionali. Rifiutiamo gentilmente le offerte di un “transport” fino al tempio e dopo una lunga e spossante camminata in salita raggiungiamo il complesso che si erge sulle pendici del monte Agung. Il Pura Besakih non è un vero e proprio tempio quanto un complesso di templi i più importanti dei quali sono il Pura Panaratan Agung, il Pura Kiduling Kreteg, il Pura Batu Madeng, consacrati, rispettivamente a Shiva, Brahma e Vishnu.

Alcune persone, tutte vestite allo stesso modo, ci avvertono che dobbiamo essere accompagnati durante la visita; sappiamo che non è così, che vogliono solo i nostri soldi e tiriamo dritto. Questo modo di fare ci ha scocciato, è un aspetto di questo popolo che non ci aspettavamo e che non ci piace, Bali incomincia a deluderci. La gente gentile e meravigliosa di cui tutti ci avevano parlato e che ci aspettavamo di trovare non c’è.
C’è però la spazzatura che viene accumulata accanto ai templi, ai monumenti; è come se accanto al Colosseo ci fosse una discarica abusiva. E non sono tanto i turisti a compiere questo scempio, quanto gli stessi balinesi: dopo aver comprato una noce di cocco ho chiesto alla donna che ce l’ha venduta se potevo gettare il guscio nel bidone distante qualche metro, lei mi ha risposto che potevo buttarlo nel prato accanto.

Questa trascuratezza – vedi anche i “marciapiedi da denuncia” – proprio non ce l’aspettavamo. Se vai in India sai cosa trovi, questa doveva essere “un’isola felice”, ma non lo è.
Raggiungiamo il tempio posto più in alto, tentiamo di entrare, ma veniamo bloccati da un ragazzo che ci avvisa che si può entrare solo per pregare. Visto che non siamo indù e che non vogliamo mentire fingendoci tali ce ne stiamo all’ingresso. Di lì a poco arriva un’australiana con una di quelle “guide ufficiali”, ecco 10.000Rp ed il cancello si apre. <>. Ah, ci voleva un piccolo obolo… questo vizio c’è l’hanno un po’ tutti… Io i soldi a questo tipo non glieli do, anzi ho proprio voglia di fare una bella litigata ed entrare comunque; Paola però mi chiede di non farlo ed allora, a malincuore, desisto dal mio intento e ce ne andiamo.

Prossima tappa il Pura Kehen che, con la sua spettacolare scalinata formata da 48 scalini e il suo maestoso portale d’ingresso, rappresenta il tempio principale per il regno di Bangli. Arriviamo nel bel bezzo di una cerimonia che l’autista ci dice svolgersi una volta all’anno: il suono stridulo e metallico della musica gamelan si diffonde nell’aria, bambini e bambine vestiti in giallo e bianco danzano ammirati da tutti, pile di frutta vengono offerte agli dei, pochi turisti assistono con rispetto a tutto ciò che succede. Il tempio è reso ancor più bello dalla cerimonia in corso. Un combattimento di galli si svolge lì accanto, questa volta “costringo” Paola a vedere alcuni incontri. Il viso del proprietario di un gallo che morirà di lì a poco sprizza tensione da tutti i pori, questa immagine rimarrà impressa nella mia memoria come pure in quella della mia reflex.

Ritorniamo da Agung e ci facciamo riportare in hotel. Il simpatico e gentile signore alla reception, quello più anziano, forse il capo o addirittura il padrone, ci accoglie con il suo solito saluto: <<hallo, hallo, hallo,… yes, yes, yes>> e ci consegna la chiave, il numero se lo ricorda. Gli altri clienti non vengono accolti così, forse gli stiamo simpatici, e lui sicuramente sta simpatico a noi!!

14 settembre 2002
Oggi decidiamo di andare a fare il bagno, l’ho promesso a Paola ed adesso mi tocca accontentarla. Optiamo per la bella spiaggia di Kuta, anche se qualcuno ce l’aveva sconsigliata.
Sembra di essere a Bondi Beach, Sydney: onde ancora più alte, australiani dappertutto, giapponesi alti un tappo o poco più che con i loro capelli ossigenati ed i loro surf enormi cercano di imitare i surfisti aussie… che pena! Tante poi sono le ragazze coreane e giapponesi che, tutte vestite e con le borse dello shopping, passeggiano lungo la spiaggia!?!?
Anche qui numerosi sono i venditori ambulanti, a differenza di quelli “italiani”, che quasi vengono a stendersi sul tuo asciugamano, però, questi rimangono in fondo alla spiaggia e chiedono con una sorta di cantilena se si è interessati o meno ai loro prodotti o ai loro servigi: <>.

Oltre a vendere bibite e gelati, o T-shirt ed altri oggetti, offrono pure massaggi, tatuaggi e treccine. La cosa strana e che se si decide di comprare qualcosa, la maggior parte di questi rimangono in fondo alla spiaggia e si è costretti a raggiungerli, come se ci fosse un divieto o che altro.
A Kuta si può ammirare uno dei più bei tramonti di tutta Bali; siamo seduti scrutando l’orizzonte ed ecco che veniamo letteralmente accerchiati da quattro diversi venditori contemporaneamente, proprio nel momento più bello del tramonto. Dopo tante ore sotto il sole per aspettare che questo si tuffi nell’oceano… una sorta di eclissi ci oscura la visuale! Come in ogni vacanza, abbiamo deciso di sviluppare le foto direttamente sul luogo, il prezzo è notevolmente inferiore a quello praticato in Italia.

Il giorno prima abbiamo così fatto il giro dei centri di sviluppo foto e scelto uno della Fuji vicino il nostro hotel (visto che negli altri ci facevano sempre un prezzo superiore). Il ragazzo ci ha spiegato che il prezzo “normale” per un rullino di 36 foto è 67.000Rp e dopo un’estenuante contrattazione restiamo d’accordo per 50.000Rp purché gli porti altri rullini; ci ha anche assicurato che se non saremo soddisfatti della qualità delle stampe ci restituirà i soldi.
Eccoci quindi al centro Fuji per ritirare le nostre foto, la qualità è buona ed allora gli scarichiamo un sacchetto di rullini sul bancone, per il giorno seguente saranno pronti.
Per cena decidiamo di andare a mangiare in uno di quei warung che si trovano sulla costa. Rifacciamo la strada del primo giorno ed arriviamo in spiaggia; dobbiamo percorrere un lungo tratto al buio ma Paola ha paura, ritorniamo quindi indietro e ci accomodiamo da Mama Putu. La cena è buona e paghiamo solo 60.000Rp, da quel momento questo sarà il nostro ristorantino preferito.

15 settembre 2002
Anche oggi ci alziamo tardi, abbiamo bisogno di un po’ di relax… non si può sempre correre, in vacanza si va anche per rilassarsi.
Decidiamo di cambiare spiaggia e ci facciamo portare a Jimbaran. Non c’è nessuno a parte quelli che dormono sulle sdraio degli hotel e per di più la spiaggia è sporca: bottiglie ed altro, regali della notte passata, spuntano dalla sabbia. Passeggiamo sul bagnasciuga alla ricerca di qualche conchiglia, gli aerei del vicino aeroporto atterrano in continuazione; percorriamo quasi tutta la spiaggia da nord a sud ed alla fine decidiamo di andarcene verso Kuta. Questa spiaggia di cui tanto si parla nelle guide ci ha un po’ deluso, ma forse è tanto rinomata solo per i locali che si animano di sera.

Siamo di nuovo a Kuta, giriamo per negozi, ne troviamo uno della Puma e da fanatici di questa marca ci catapultiamo dentro. Paola vede un bellissimo paio di scarpe che in Italia non sono commercializzate, prova un paio ma le sta largo e allora chiede se ne hanno uno più piccolo. Rispondono che quello è l’unico, noi pensiamo che poiché sono belle scarpe questo è tutto ciò che gli rimane. Chiedo di provare un paio anch’io, i prezzi sono la metà di quelli in Italia e anche se non ne ho bisogno questo è un affare che non bisogna farsi scappare. Hanno solo due numeri, il 37 e il 46! Le “pinne” ce le ho già, e non voglio “fasciarmi” i piedi come quelle donne giapponesi dei tempi passati… Ci guardiamo intorno e parlando con i 5 commessi (in un negozio di 3 metri per 8) capiamo che per ogni modello di scarpe esposto hanno solo uno o due paia. Sono strani questi indonesiani! Andiamo in spiaggia, le onde sono belle come sempre ed io mi sto specializzando nel cavalcarle solo con il corpo. Aspetto l’onda giusta, quando si avvicina incomincio a nuotare verso riva e poi è lei a prendermi e a “surfarmi”. Il surf, quello vero, non lo noleggio, non so usarlo e per di più la caviglia mi fa ancora male.

Ritorniamo a Sanur, le foto ci aspettano ed una volta ritirate ce ne torniamo in hotel. I colori sono buoni, ma con un rullino devono aver fatto qualche pasticcio: un angolo è completamente nero.
Mi sembrano meno di quelle che devono essere, è la prima volta che uso questa macchina e qualche foto non sarà venuta, ne mancano però parecchie, circa 40 su 7 rullini, non posso essere stato così disastroso. Guardo i negativi, <>.
Ritorno al Fuji Center, faccio vedere al ragazzo il rullino venuto male e lui mi dice che non ci sono problemi, me lo fa stampare di nuovo. Lo ammonisco che di un rullino non mi ha stampato la trentasettesima foto, <> mi risponde lui!

Ma siamo pazzi!!?? <<Don’t give me a shit>>, questa è una stupidata ed ad ogni modo mancano 40 foto, circa sei per rullino, e che quindi <>. Mi risponde che probabilmente quelle che non sono state sviluppate non erano venute bene, gli faccio vedere tutti i negativi e gli dimostro che si sbaglia. <> con tono sarcastico e ripetendo le sue parole <>. Mi ritorna in mente “la cortese gente di Bali… “, se prendo quelli che me l’hanno detto o scritto! Ritorno in hotel, dico a Paola com’è andata e troviamo rifugio da Mama Putu.

16 settembre 2002
E siamo giunti al giorno che ci farà promettere a noi stessi di non rimettere più piede su quest’isola. Bali è molto diversa da come ce l’avevano descritta, quando ti aspetti una cosa e poi ti arriva un’altra che è peggiore di quella attesa… beh, è dura da sopportare.
Siamo stati in posti magnifici: a Bangkok mi aspettavo di trovare gente pronta ad ogni inganno e non rimpiango niente di quel viaggio, ci tornerei subito; a Pechino, in Australia, a New York… nessun problema.
Qui a Bali invece ci siamo trovati in situazioni che non avremmo mai pensato di affrontare, niente di grave beninteso, cose però che ti lasciano l’amaro in bocca. Cose che sul momento ti fanno odiare il posto in cui ti trovi, le persone che ti si avvicinano. Poi, a freddo, dai il giusto peso a ciò che ti è successo, ripensi alle belle cose viste e ai bei momenti vissuti. Adesso che siamo ritornati a casa, che abbiamo metabolizzato il viaggio, ne parliamo in modo entusiastico con amici e parenti: Bali è bella, però…

A Bali non ci torneremo più, non perché la odiamo o perché non ci è piaciuta, ma solo perché ci sono tanti altri posti da vedere in questo mondo. Oggi adiamo al Pura Luhur Uluwatu un tempio a strapiombo sul mare all’estremo sud dell’isola. Agung ormai ci sta sulle palle, per di più ci chiede un sacco di soldi per un’escursione che vogliamo fare nei prossimi giorni; non si rende conto che ci sono altre persone pronte a trasportarci, anche per un prezzo minore.
Decidiamo di prendere un taxi, tanto poi andremo in spiaggia e non ci serve un autista per la giornata. Ci incamminiamo verso il tempio, io davanti e Paola dietro; sento un urlo, è Paola, mi giro di scatto e la vedo li, con le mani alla gola. Preoccupato le chiedo cosa è successo, lei mi risponde che è stata assalita, le chiedo da chi e lei mi indica una scimmia lì vicino.
Arrivando non l’avevo notata, lo sapevo che il posto era abitato da questi “simpatici animali” ma non me ne ero ricordato. La guardo bene e vedo che ha tra le zampe gli occhiali da sole di Paola, due francesi mi danno dei biscotti per cercare di avvicinarla, intanto altre persone vengono derubate.

È un attacco!!! Il tentativo di riprendere gli occhiali fallisce miseramente e ciò mi fa arrabbiare. Nel frattempo arriva un uomo che, dopo aver dato delle noccioline alle tre scimmie, si fa restituire gli occhiali rubati. L’accompagnatore degli altri turisti gli dà 30.000 o 40.000Rp, il tipo fa per andarsene ma la “guida” lo avverte che noi non siamo con loro. Allora l’uomo mi avvicina e mi chiede dei soldi, l’arrabbiatura aumenta ma per evitare storie gli sgancio 2.000Rp, per me anche troppe. Mi risponde che è poco, allora esplodo… questa è una truffa e io non ci sto. Mi avvicino, siamo faccia contro faccia, gli dico che è anche troppo e se non gli va bene gli ammazzo la scimmia e poi… Sorride, devo aver fatto una faccia cattiva, se ne va. Incomincio a maledire il posto, la gente, Paola è scioccata, si è sentita strozzare dalla scimmia che le è salita addosso. È la classica goccia che fa traboccare il vaso, queste scimmie saranno dispettose per natura ma sono anche state addestrate per derubare i turisti. E di nuovo penso “alla cortese gente di Bali”.

Passiamo il resto della visita, che si risolve in pochi minuti, con dei bastoni in mano, non mi interessa più vedere il tempio, vogliamo solo andarcene. Incomincia a piovere, accidenti a Bali e tutto ciò che ci circonda, ritorniamo verso il tassista e quelli all’uscita ci urlano di restituirgli i sarong. La dolce Paola è imbufalita, non faccio in tempo a rispondere che lei urla loro che i sarong sono nostri.
Trascorriamo la giornata a Kuta beach, a fare le solite cose ed a pensare alla nostra vacanza in Indonesia. Giava ci è piaciuta moltissimo, Bali è bella ma la gente ci ha deluso. Ci aspettavamo di trovare la “cortese gente di Bali”, nulla di tutto questo, il turismo ha forse rovinato questo popolo, in altri paesi meno turisticizzati capita che la gente ti aiuti o ti regali qualcosa senza chiedere niente in cambio. Qui no, si fa tutto per soldi e si cerca pure di imbrogliare. Non parlo del contrattare per ogni cosa, questo è un modo di fare dei popoli asiatici, parlo invece dell’imbrogliare il turista che a volte è sprovveduto oppure solo non conosce il posto e le sue abitudini. Il tassista da Kuta a Sanur, le scimmie, il “guardiano” del Pura Besakih, le foto… A proposito di foto, ritornati a Sanur ho ritirato quelle mancanti, questa volta tutto OK.

Ceniamo sulla spiaggia al Fishermen’s Friends, accanto al nostro warung preferito; le figlie di Mama Putu ci osservano tristi, questa sera le abbiamo “tradite”. Ritornando in hotel veniamo fermati da un driver che ci chiede se abbiamo bisogno di un trasporto per il giorno dopo. In effetti abbiamo deciso di fare un giro molto lungo e vedere un sacco di cose. Con “il lento”, data la sua velocità di crociera, ci impiegheremmo due giorni, in più non mi piace quel sorriso che ha sempre sulle labbra. Gli dico di sì, ci chiede 400.000Rp, contrattiamo ed arriviamo a 300.000Rp, sono tante ma visto il percorso da fare ed i prezzi pagati gli altri giorni per tour minori ci va bene. Altri ci hanno chiesto un po’ di meno ma non sembravano affidabili, lui invece ci sta già simpatico: si chiama Ketut Wisik, “Roy the boy” per gli amici. Sorprendentemente ci chiede una caparra per confermare la “prenotazione”, gli rispondo che non gliela do e che ci vediamo domani.

Sembra onesto, mi dice di non imbrogliarlo perché lui è.. balinese, gli rispondo che sono italiano e che questa stretta di mano vale più della caparra. Vogliamo che sia veloce ma allo stesso tempo sicuro negli spostamenti, il driver di prima era troppo lento, il viaggio è lungo e non abbiamo tempo da perdere. Ci salutiamo, sale sul suo minibus e parte a razzo, quasi per dimostrarci che lui guida velocemente. Andiamo a dormire, mi viene in mente ciò che ci è successo oggi, il nervosismo è passato, siamo contenti di stare qui, Bali è comunque un posto da visitare ma che non si dica che è un posto “da favola”!

17 settembre 2002
Alle 8 siamo già fuori dall’hotel e troviamo Ketut ad aspettarci: la stretta di mano è valsa quanto una caparra. Dopo mezz’ora siamo già alla Grotta dell’Elefante di Goa Gajah; data l’ora – sono le otto e mezza – non ci sono turisti e le bancarelle devono ancora aprire. Si scende per una gradinata molto ripida e si arriva alle vasche nelle quali un tempo si facevano i bagni; accanto alla grotta si ergono un tempio ed alcuni monumenti. All’interno si trova la famosa statua di Ganesh, metà uomo e metà elefante, figlio di Shiva. Data l’assenza di turisti ed il fatto che le bancarelle all’entrata sono ancora chiuse riusciamo a goderci questo bellissimo posto senza essere disturbati da nessuno; un’impercettibile ma costante pioggerella rende questo luogo ancora più bello.

Ripartiamo e poco dopo siamo già alle Tombe Reali di Gunung Kawi, il più maestoso tra i monumenti antichi di Bali. Più di cento gradini ci portano in fondo ad un dirupo dove troviamo un tempio e 9 tombe di antichi principi, dei candi ricavati in nicchie alte sette metri. Le tombe, che in realtà sono dei monumenti decorativi, sono scavate nella roccia e sono disposte quattro da una parte e cinque dall’altra, in mezzo vi scorre un piccolo torrente. Anche qui, data l’ora ed il tempo piovoso, non ci sono turisti; ci sono però alcuni balinesi che stanno allestendo il tempio per una cerimonia.
Risaliamo con fatica la scalinata che porta alle tombe, per di più ora sta piovendo a dirotto, e con il fido Ketut salpiamo alla volta di Ubud.
Questo villaggio è il centro culturale dell’isola ed a ragione uno dei posti più belli e caratteristici di tutta Bali. Ha smesso di piovere e così possiamo passeggiare indisturbati per le vie principali. Ho anche il tempo di fare una partita a ping pong con alcuni ragazzi; il ping pong è sport nazionale in Indonesia e, a sentire loro, sono anche tra i più bravi al mondo.

Passeggiando per Monkey Street, stando sempre attenti a non mettere i piedi negli innumerevoli buchi che “abbelliscono” i marciapiedi indonesiani, facciamo l’incontro con il più brutto cane mai visto! C’è da premettere che qui in Indonesia i cani non sono in ottime condizioni: sarà per la diversa mentalità dei locali o per le ristrettezze economiche in cui vivono, ma qui questi animali sono conciati veramente male. Durante le nostre due settimane trascorse in questo Paese abbiamo visto pochissimi cani degni di questo nome; la maggior parte sono denutriti e senza peli, molti hanno delle vesciche sul corpo. Il cane visto ad Ubud ha però battuto ogni record: l’abbiamo incrociato che barcollava, perdeva sangue da una coscia e un’orecchia quasi gli si staccava.
Abbiamo chiesto a Ketut se tutti i cani che si vedono in giro, e sono moltissimi, sono randagi visto le loro condizioni. Con naturalezza ci ha risposto che hanno tutti un padrone e alla sera ritornano a pure casa: <>.
Dopo aver visto alcuni negozi nei quali gli artisti espongono i loro lavori entriamo al Puri Saren Agung, un palazzo che è possibile visitare gratuitamente. Il complesso è tenuto molto bene anche perché è abitato da un nobile e dalla sua famiglia. Durante la visita, infatti, abbiamo visto la nonna che guardava la TV ed un cucciolo di pastore tedesco – quello sì in perfette condizioni – ci ha seguito in tutti i cortili.

Pochi metri dal palazzo si trova un piccolo tempio con vasche di fiori di loto, il Pura Taman Saraswati che per l’occasione ci è apparso ancora più bello visto gli addobbi con i quali era decorato. Di lì a qualche ora ci sarebbe stata una importante cerimonia che avrebbe coinvolto tutta Ubud.
Ritroviamo Ketut e mentre parliamo avviene a poca distanza da noi un incidente. La strada è stretta, un uomo in un’auto in sosta ha aperto la portiera senza guardare e la sua automobile è stata centrata da un’altra di passaggio. Il botto è stato forte ma non ci sono state conseguenze per i passeggeri. Lasciamo Ketut ed entriamo al Puri Lukisan Museum nel quale si possono ammirare numerosi esempi di pittura balinese. Il museo è diviso in padiglioni disposti in un giardino, all’interno di ognuno si trovano dei bei quadri, qualcuno veramente eccezionale.
Ne usciamo, Ketut che ci aggiorna sull’incidente e successivamente partiamo per il lago Bratan. Per raggiungerlo siamo costretti a guidare attraverso stradine incredibili: buche, pendenze assurde, viste mozzafiato e paesini dimenticati da Dio ci accompagnano fino al lago.

Data l’altitudine ed il tempo piovoso, la temperatura è scesa: io sopporto, Paola chiaramente crede di stare sull’Himalaya.
Il lago è immerso nelle nuvole, la vista non è ottima, il tempio Pura Ulun Danu Bratan è molto carino e molto frequentato dai turisti, per accedervi bisogna entrare in un parco. All’interno si possono fare delle foto con degli animali: un’iguana, un pipistrello con un’apertura alare di oltre un metro, alcuni enormi pitoni ed un simpaticissimo quanto spaventatissimo opossum.
Ci viene un po’ di fame ed allora compriamo alcune “prelibatezze” locali: patatine al pesce e delle arachidi amare. Le patatine non le hanno volute neanche le anatre del lago, le arachidi sono volate nel primo bidone trovato.
Ritorniamo a Sanur. Ketut ci chiede se possiamo scrivergli una raccomandazione per eventuali turisti italiani. Data la cortesia, simpatia e professionalità gli diciamo che lo faremo con molto piacere. Cena da Mama Putu e dritti a nanna.

18 e 19 settembre 2002
Questi due giorni li passiamo in completo relax: Kuta beach la nostra destinazione. Gironzoliamo per le strade senza meta, ci divertiamo a contrattare l’acquisto di souvenir da portare in Italia. Veniamo continuamente fermati da ragazzi che ci propongono acquisti e di partecipare ad uno strano gioco, una specie di lotteria che credo sia una truffa.

Ci chiedono sempre da dove veniamo anche se sanno già che siamo italiani, ed allora diventano ancora più insistenti. Stufo delle continue offerte d’affari incomincio a rispondere che siamo cubani: come per miracolo tutti ci lasciano stare: <<ahh, Fidel Castro>> e <> sono stati gli unici commenti.
Queste parole, passate inosservate e che ci hanno anzi fatto sorridere, mi ritorneranno in mente qualche settimana dopo.
Due forti esplosioni fanno saltare in aria la discoteca Sari Club, muoiono 200 persone, tra esse molti occidentali. Le immagini che scorrono alla TV ci mostrano Jalan Legian, il centro di Kuta e dell’intera Bali, molti sono gli edifici sventrati o irreparabilmente danneggiati. Il movimento della Jamal Islamia è l’autore di questa strage, un attentato contro gli occidentali che stanno “invadendo” l’Indonesia.
Ripenso a quanto ci ha detto Ketut: <>. Queste semplici parole suonano come un avvertimento, purtroppo non ascoltato.

Nella piscina dell’hotel facciamo conoscenza con una coppia di tedeschi, lui è appassionato di snorkelling e sta provando la bombola di ossigeno. Trascorriamo un’oretta buona scambiandoci le nostre impressioni su Bali ed in generale sull’Indonesia, sui posti visti e sui ristoranti: anche loro hanno mangiato da Mama Putu ed anche loro si sono trovati bene.
In questi giorni proviamo anche un altro ristorante: l’Apakabar Restaurant sempre lungo la strada che costeggia il mare, ottima cucina e buoni prezzi, in particolare il seafood basket.
Incontriamo gli amici di Ketut, ci consegnano un foglio sul quale scrivergli la raccomandazione; gli rispondo che gliela facciamo subito ed allora ci fanno accomodare all’interno di un negozio.
Seduti su un tavolo, ossequiati solo come re o buoni amici, creiamo un capolavoro di raccomandazione che poi loro consegneranno a Ketut. Lo rivediamo il giorno dopo, ci ringrazia per la raccomandazione che si è già premurato di plastificare e rimaniamo d’accordo che ci accompagni all’aeroporto il giorno della partenza. Lungo la strada assaggio alcuni spiedini di pollo piccantissimi: sono buoni ma mi provocano problemi di stomaco, per fortuna con me c’è la “farmacista” Paola.

20 settembre 2002
Ed eccoci al nostro ultimo giorno d’Indonesia. Decidiamo di non muoverci da Sanur onde evitare di rimanere bloccati da qualche parte. Trascorriamo la mattinata in piscina ed in giro per il paese, l’uomo simpatico alla reception ci lascia usare la stanza fino alle 16 senza pagare il supplemento previsto. Ci facciamo una doccia, prepariamo i bagagli ed aspettiamo Ketut che arriva puntuale. Giunti in aeroporto ci salutiamo, sappiamo che non lo rivedremo più e ci spiace, gli prometto che farò il suo nome nel racconto che pubblicherò su internet: è contento. Ultimi acquisti in aeroporto per consumere le poche rupie rimaste e via!

Siamo sul Golfo del Bengala, il pilota ci avverte di allacciare le cinture di sicurezza: turbolenze in arrivo.
L’aereo viene scosso violentemente, tutti sono preoccupati. Un italiano accanto a noi ci racconta che all’andata, sempre nello stesso punto, l’aereo ha incontrato un “vuoto d’aria” ed è precipitato per tre lunghissimi secondi. Tutte le hostess e coloro che non avevano allacciato le cinture di sicurezza sono stati sbattuti con forza contro il tetto dell’aereo. Scene di panico indescrivibile, gente ferita, il cibo e le bevande sparse ovunque. Atterrati a Singapore hanno dovuto attendere l’arrivo di un altro aereo in sostituzione, molti si sono fatti medicare ed alcuni sono rimasti in ospedale. Insomma un’esperienza che gli rimarrà impressa e che lo ha convinto ancor di più a tenere sempre allacciate le cinture di sicurezza.

21 settembre 2002
Il viaggio prosegue sempre disturbato dalle turbolenze, forse per questo una giovane donna seduta dietro a noi si sente male. Il marito chiama uno stewart ed in un inglese approssimativo cerca di farsi capire: sono spagnoli e lei che è incinta di uno o due mesi sente forti dolori allo stomaco. Come all’andata viene chiesto se c’è un dottore a bordo, arrivano tre dottori tedeschi; la conversazione è difficoltosa, lo spagnolo non capisce. Fortunatamente qualche sedile più in là c’è un ragazzo tedesco – che era seduto accanto a noi all’andata, che abbiamo rivisto anche a in spiaggia a Kuta e che noi avevamo soprannominato “farlocco” o “tartarugo”- che “habla español” avendo vissuto in Spagna per qualche anno. Fa da traduttore e da “tartarugo” si trasforma nel “mio eroe”… non sempre la prima impressione è quella giusta. Purtroppo non si può fare niente, non si capisce se la donna ha avuto un aborto spontaneo o cos’altro, all’aeroporto ci sarà un’ambulanza ad attenderla.

Arriviamo a Francoforte, dobbiamo fare il check-in con Lufthansa, l’aereo è arrivato con quasi un’ora di ritardo e non abbiamo molto tempo. Per di più ci ricordiamo di quando lo abbiamo perso a Londra ed abbiamo impiegato un giorno interno tra aerei e treni per arrivare a casa.
Ad ogni banco ci sono file interminabili, cerco di capire se è il posto giusto ma i rigidissimi dipendenti Lufthansa non mi rispondono o mi ammoniscono che <>. Ne mando a quel paese più d’uno.
Un’hostess mi dice di provare ai banchi della business, ci andiamo e quelli in fila ci permettono di saltarla. L’hostess di terra ci dice che abbiamo biglietti di economy, le rispondo che lo so ma che siamo in ritardo: è gentile, ci consegna le carte d’imbarco e così riusciamo a prendere il volo per Venezia ed a ritornare fortunatamente a casa. La vacanza non è ancora finita ma penso già al prossimo viaggio.