Fin dall’antichità in Israele, come in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, la vite, l’uva e il vino ebbero un ruolo importante sia nella vita quotidiana che nel rituale liturgico giudaico. Il suo significato era molto diverso però da ciò che rappresentava per i seguaci di Dioniso: l’idea di una libagione, per gli ebrei, era sacrilega poiché il bere vino era un piacere pieno di pericoli e quindi doveva essere controllato dal rabbino.

L’interesse degli Israeliti per la coltivazione della vite è un tema ricorrente dei profeti i quali usavano il vino come simbolo di uno stato di felicità. Noè fu il primo a piantare una vite e dopo aver prodotto il primo vino si ubriacò con conseguenze disastrose (Gen. 9,20). La vite ricca di frutti è vista come un simbolo di fertilità e un’antica tradizione ebraica vuole che le ragazze nubili in cerca di marito usassero sfilare nei vigneti, davanti ai buoni partiti del posto, in occasione di alcune celebrazioni rituali.

La vigna è, fin dalla Bibbia, immagine della stessa Israele nel linguaggio religioso e, per questo, motivi ornamentali rappresentanti viticci e grappoli d’uva si ritrovano frequentemente nell’arte e nell’architettura sinagogale.

Anche se ci sono, nella letteratura ebraica, moniti contro l’ubriachezza, una quantità modesta di vino era prescritta per la celebrazione di vari rituali. Ancora oggi il sabato ebraico inizia con un atto di benedizione, il kiddush, che prevede la recita di una preghiera mentre viene passato un calice di vino dal quale beve tutta la famiglia. Nella Pasqua ebraica si bevono quattro calici di vino, ai matrimoni due e alle circoncisioni uno. Anticamente ai funerali veniva offerta, alla famiglia del defunto, una coppa detta “della consolazione” consistente in dieci bicchieri di vino.

Un tempo il vino rosso dolce era quello preferito per l’uso rituale, ma durante la cena di celebrazione della Pasqua ebraica, era consentito usare il vino bianco in modo tale che gli ebrei non fossero sospettati di bere sangue cristiano: nel Medioevo infatti i cristiani accusavano ingiustamente gli ebrei (accusa del sangue) di praticare omicidi rituali di cristiani al fine di ricavare il sangue da usare nella preparazione della matzah (il pane piatto non lievitato che si mangia durante la cena di Pasqua).

Dopo la distruzione del Tempio ci furono spinte a bandire il vino, in segno di lutto, che furono però contrastate dai rabbini. Restrizioni, allora, furono poste sul vino dei gentili (i non ebrei) poiché con esso venivano fatte libagioni agli idoli. Anche quando l’idolatria cessò, rimase la proibizione di usare vino prodotto, o anche solo toccato durante la sua produzione, da non ebrei. Dietro queste norme, apparentemente eccessive, si cela il vero timore che le aveva dettate: gli ebrei non dovevano accettare vino dai gentili perché un rapporto sociale tra essi poteva portare a situazioni di convivialità e intimità che, a loro volta, avrebbero potuto portare a matrimoni misti. L’uso del vino come offerta di libagione, tipica nel mondo antico circostante agli ebrei, portò a restrizioni severe: venne proibito di bere vino che non fosse di produzione ebraica, così che per l’uso ebraico si dovette far nascere una propria industria enologica e un commercio vinicolo esclusivo. È degno di nota il fatto che uno dei primi precetti dati agli esseri umani concernesse il cibo, con la proibizione ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita che, tra l’altro, secondo l’opinione di alcuni autori, sarebbe stata una vite. Da allora, gli ebrei hanno sempre posto grande enfasi sull’autocontrollo alimentare.

Le leggi dell’alimentazione ebraica affondano le radici nella Bibbia e vengono osservate dagli ebrei da più di tremila anni; sono definiti “statuti”, ossia leggi di cui non viene data alcuna motivazione comprensibile dall’intelletto. Il pensiero chassidico si spinge oltre, spiegando che tutto ciò che si mangia diventa parte integrante del sangue e poiché, come dice la Bibbia stessa “il sangue è l’anima“, mangiando cibi vietati, essi diventerebbero parte dell’anima rendendo quindi impuri chi li mangia.

Il vino ritualmente puro è definito “kosher“. Il termine ebraico, che può essere tradotto con i termini italiani “adatto”, “puro” o anche “perfetto“, viene genericamente usato per definire il cibo, e non solo il vino, che è consentito mangiare secondo le regole alimentari ebraiche. Tutto ciò che non è kosher è taref (termine che originariamente si riferiva soltanto ad animali che erano stati dilaniati da una bestia da preda). Il termine kosher si trova nel libro di Esther ed è poi passato nella letteratura rabbinica per indicare sia il comportamento rituale che le persone, anche se il suo uso principale rimane oggi quello della classificazione dei cibi. Secondo gli ebrei mangiare cibo non kosher influenzerebbe gli atteggiamenti tanto da finire per essere attratti dal male. Le prescrizioni alimentari, come accade anche per altre religioni, sono state spiegate come precauzioni mediche mascherate, o come mezzi per mettere alla prova l’obbedienza di Israele verso Dio o ancora come generanti santità e perfezione morale. Alcuni tipi di cibi, benché kosher, non possono essere mangiati da un ebreo se cucinati da un gentile.

Per quanto riguarda il vino, le regole che lo definiscono kosher, hanno lo scopo di garantire che non ci sia nessuna interferenza da parte dei gentili. Le norme vengono applicate con estrema minuziosità sotto il rigoroso controllo del rabbino. I gentili non possono nemmeno sfiorare un qualsiasi punto delle attrezzature di cantina (valvole, tubi, vasche, etc…) dove il vino passa o dovrà passare. Solo quando il vino è imbottigliato e sigillato allora i gentili possono avvicinarsi. Vino e succo d’uva ma anche altri prodotti come il brandy e l’aceto di vino devono portare il sigillo di un rabbino. Esso è kosher solo se la sua produzione viene effettuata da un ebreo osservante. La produzione di vino kosher richiede un notevole dispendio di tempo e denaro, poiché richiede la scrupolosa kasherizzazione dell’attrezzatura precedentemente impiegata per la produzione di vino non kosher e la presenza di un’intera équipe di personale osservante debitamente addestrato.

Come spesso accade, ingredienti non kosher possono infiltrarsi nella produzione di vini kosher (additivi, chiarificanti, etc…), per questo è di fondamentale importanza un controllo rabbinico molto accurato.
La profanazione che può derivare da un contatto fisico prodotto da un gentile, riguarda il fare di quel vino una libagione cioè dedicarlo a un idolo, foss’anche solo con il pensiero. Il fatto che queste regole così scrupolose esistano ancora, ne conferma la vera ragione delle stesse di esistere e cioè che i gentili vanno tenuti a debita distanza se si vuole mantenere integro l’ebraismo.

Per le cerimonie liturgico-religiose viene quindi ancora oggi usato soltanto vino kosher secondo la prassi ortodossa e conservatrice. In ogni caso l’uso smoderato di vino, anche kosher, viene severamente condannato. Secondo le antiche scritture (Lev. 10) un sacerdote può essere punito dal cielo con la pena di morte se adempie alle funzioni sacerdotali in stato di ebbrezza. Se un giudice ha fatto uso di sostanze alcoliche non gli è permesso di sedere in giudizio per una causa. Non si deve pregare se si è ubriachi, e se lo si fa è come se si adorassero degli idoli. Ma i patti di affari stretti da un ubriaco sono considerati validi e una persona è persino considerata responsabile dei peccati commessi in stato di ubriachezza. Il termine “ubriachezza” in senso simbolico si incontra in diversi scritti, per indicare svagatezza e rovina mondana dell’anima, specialmente nella cabala.

In ogni atto di culto la presenza del vino è per gli ebrei simbolo di gioia mentre ne è respinta l’ebbrezza tipicamente dionisiaca. Tuttavia durante la festa del Purim (festa minore che celebra la storia di Esther) gli ebrei sono tenuti a bere e a ubriacarsi fino a che non sono più in grado di distinguere il “buono” dal “cattivo”. Un’altra eccezione è rappresentata dal movimento chassidico i cui appartenenti fanno uso di alcol per rendere più intense le pratiche religiose.