Sull’origine della viticoltura in Italia, si è molto discusso nel corso degli anni, e la tradizione vuole che siano stati gli etruschi i responsabili dell’introduzione di questa coltura. Oggi, con le recenti scoperte storiche e archeologiche, la tradizione viene messa in dubbio. Essa infatti si basava sull’ipotesi dell’origine orientale del popolo etrusco, popolo di cui provenienza, data di arrivo e lingua sono da sempre un mistero. Il fatto che la loro lingua non appartenga al gruppo indoeuropeo ma probabilmente a linguaggi pregreci dell’Asia minore, fa supporre che anche la loro provenienza sia orientale, tanto più che sull’isola di Lemno e in altri luoghi ad essa limitrofi, sono stati ritrovati reperti archeologici ricollegabili al popolo etrusco.

Tuttavia, anche se questo fosse vero e non è confermato, l’introduzione della coltivazione della vite in Italia è più logicamente imputabile ai coloni greci che si stabilirono sulle coste dell’Italia meridionale nello stesso periodo in cui gli etruschi conquistavano le città umbre e insediavano in questi territori una fiorente civiltà all’unisono con quelle orientali dell’Asia minore. Anche l’introduzione della viticoltura in Roma non avvenne grazie agli etruschi, ma ai sabini. Documenti antichi infatti ci dimostrano come Numa Pompilio, secondo re di Roma di origine sabina appunto, regolamentava con la sua attività di legislatore un campo che riguardava la vite da vicino. Da testi di Plutarco e Plinio scopriamo che nella Roma dell’epoca di Numa Pompilio vigeva il divieto di offrire libagioni agli dei con vino di viti che non fossero state potate e inoltre era vietato spargere vino sui roghi funerari. Queste leggi testimoniano l’introduzione ufficiale di alcune pratiche colturali quali la potatura che hanno il chiaro significato di favorire un vero e proprio lancio della coltivazione della vite, e anche l’attenzione ad evitare lo sperpero di un prodotto considerato raro e prezioso.

Anche se il popolo etrusco non è stato il responsabile della diffusione della viticoltura in Italia, produceva comunque una consistente quantità di prodotto enologico come testimoniato da documenti letterari ed epigrafici e da dati archeologici rinvenuti nell’Etruria stessa e nel mondo celtico, principale sbocco di questa produzione. Alla leggenda di Enea appartiene l’episodio in cui l’eroe troiano affronta una coalizione di Rutili ed Etruschi in cui si narra che l’allora re d’Etruria, Mezenzio non accetta di intervenire se non a condizione di ricevere tutta la produzione di vino del paese latino di Caere (l’attuale Cerveteri). Vero o falso che sia, questo racconto dimostra sia l’interesse degli Etruschi verso il vino che il ritardo dell’introduzione di questa coltura in Etruria rispetto ai territori latini. La mancanza di una letteratura etrusca ci obbliga a ricercare le informazioni sul consumo e sulla produzione di vino in Etruria, dalla documentazione archeologica. L’abbondanza di reperti legati all’enologia del tempo, dimostra l’elevata importanza che doveva avere il vino nella società e nell’economia delle città etrusche.

Nel periodo in cui il vino veniva importato, poiché la produzione viticola in Etruria era ancora assente, e cioè alla fine del VIII secolo a.C., si ritrovano reperti collegabili al vino solo nelle tombe principesche a dimostrazione del fatto che il consumo di vino era riservato all’aristocrazia. Reperti invece risalenti alla metà del VII secolo a.C. dimostrano un cambiamento di questa situazione. Gli arredi delle tombe dimostrano sempre il consumo elevato di vino da parte dell’aristocrazia ma l’assenza di anfore importate e il fatto che le ceramiche siano state prodotte sul posto è indice di una probabile produzione locale fin da questo periodo. Da allora i vasi e le ceramiche destinati al vino si ritrovano ovviamente sempre in maggior numero nelle tombe dei ricchi ma rare sono le sepolture di ceti sociali anche più bassi in cui nell’arredo funerario non figurino questi oggetti. Particolarmente curioso è poi lo studio dei nomi dei vasi etruschi: il calice è presente a Cerveteri col nome, etimologicamente di origine etrusca, di thafna, insieme al thika precursore del cratere che prende il suo nome dal deinos greco. L’oinochoe deriva anch’esso dal greco e precisamente da kothon. Altri vasi vinari molto comuni erano il bucchero nero e i vasi di bronzo.

Le origini greche di questi nome mettono in evidenza l’importante funzione dei Greci nella diffusione del vino e il radicamento della loro lingua nella civiltà etrusca. La presenza di vasi nelle tombe etrusche non rivela solo la ricchezza e il rango sociale dei defunti ma anche l’importanza rituale del vino nel passaggio nell’aldilà. Nelle pitture funerarie è infatti frequente il tema del banchetto in cui i partecipanti non mangiano, ma bevono, e i titolari della tomba assistono. Solitamente questi banchetti mostrano una frenesia straordinaria nel consumo del vino alla quale sfugge però una raffigurazione muraria rinvenuta nella Tomba del Barone dove il vino è sempre presente ma non come elemento protagonista di banchetti pantagruelici: qui infatti ritroviamo un personaggio maschile che tende alla defunta, che ha di fronte, una coppa, esprimendo così un gesto più spiritualizzato e più direttamente in rapporto con la morte.

Circa l’uso del vino nella religione etrusca non si sa molto. Alcune deduzioni possono essere tratte dai dati epigrafici legati al vocabolo che indicava il vino. Il nome di vino esiste in etrusco sotto la forma di uinu derivato indubbiamente dal greco e trasmesso poi al latino ogni volta con le debite e inevitabili mutazioni. Tale vocabolo appare dodici volte sulla mummia di Zagabria (II secolo a.C.) associato a prescrizioni libatorie. Iscrizioni su vasi attici del V secolo a.C. associano il nome etrusco di Bacco, cioè Fufluns, a quello di Vulci e stanno a dimostrare l’esistenza di un culto verso questa divinità in quei luoghi, come anche le rappresentazioni dionisiache su vasi dipinti e di bronzo.

Per quanto riguarda le zone e i vitigni coltivati dagli etruschi abbiamo degli scritti di Plinio che testimoniano in modo abbastanza preciso la produzione vitivinicola etrusca. Populonia è menzionata in questi documenti come una città in cui la vite era coltivata secondo un’antica tradizione. A Gravisca, antico porto di Traquinia, e nell’antica Statonia (nel territorio di Vulci) i vigneti già nel 540-530 a.C. erano in grado di fornire una produzione sufficiente ad alimentare un rilevante commercio esterno. I vigneti allora coltivati sono difficilmente identificabili con quelli attuali poiché nel tempo si sono avute sicuramente delle evoluzioni per incroci tra varietà o per modificazioni genetiche. Alcuni sono molto probabilmente gli “avi” dei vitigni coltivati oggi ma è difficile stabilire le giuste “parentele”, altri potrebbero essersi estinti. Plinio, nell’inventario dei vitigni italiani, parla anche di quelli coltivati in Etruria dove troviamo la Sopina, vitigno dai tralci rovesciati; l’Etesiaca, vite precoce e ingannatrice poiché più produce tanto migliore è il vino; la Talpona, varietà nera che dà un mosto bianco; le Alpiane, che danno un vino molto dolce, inebriante, adatto alla produzione del passum (passito) “lasciando dorare a lungo al sole sulla pianta i grappoli o immergendoli in olio bollente”; e infine la Conseminia, varietà a bacca nera e a maturazione tardiva che probabilamente era una associazione di piante diverse, il suo vino si conservava pochissimo, l’uva molto di più era infatti anche molto usata come uva da tavola, “le sue foglie assumono prima di cadere il colore del sangue…”.

Nella tecnica enologica il vino etrusco non doveva differire molto dagli altri vini prodotti in quell’epoca e in particolare doveva essere stato influenzato dalla produzione greca. Si aggiungeva infatti la pece facendone un vinum picatum come dimostrano le anfore etrusche scoperte in ambiente sottomarino che portano tracce di pece sulle pareti. Il vino etrusco, come abbiamo detto, era molto esportato, i commerci avvenivano in gran parte via mare, l’anfora costituiva il migliore recipiente per il trasporto marittimo e l’archeologia sottomarina è per noi un’importante strumento di indagine storica per capire la diffusione del vino al di fuori delle regioni comprese nel bacino del Mediterraneo. La produzione enologica etrusca era molto importante per i commerci che essi effettuavano tra il 625 e il 475 a.C. al di là delle Alpi, tanto che il vino era la moneta di scambio necessaria per ottenere materie prime (metalli, sale , corallo) e schiavi.

Diodoro Siculo, in uno dei suoi scritti, sottolinea la preziosità del prodotto enologico testimoniando quanto i Galli pagavano per un’anfora di vino: quella quantità di vino era scambiata per uno schiavo. Tra storia e leggenda si pone la vicenda di Arruns, personaggio anziano, sposo di una giovane donna, che aveva accolto in casa sua il figlio di un magistrato locale. Ben presto i rapporti tra il giovane e la sposa di Arruns superarono lo stadio delle relazioni normali tra pupillo e moglie del suo tutore. Per vendicare quest’affronto, Arruns avrebbe attirato in Italia i guerrieri della Gallia con l’espediente del vino. La storia è narrata da diversi autori, nessuno precisa l’origine del vino (anche se è probabile che si trattasse di una produzione locale) e ognuno aggiunge o modifica la narrazione con diversi particolari. Dionigi di Alicarnasso per esempio scrive che Arruns preparò un viaggio all’estero con il preciso scopo di fare del commercio e caricò sui suoi carri diversa merce tra cui anche otri di vino, alla volta del paese dei Celti che a quel tempo non conoscevano il vino di uva.

Dell’amore dei Galli per il vino scrive Plutarco: pare che questi, avendo assaggiato per la prima volta il vino, furono talmente entusiasti del suo sapore inebriante che presero armi e famiglie e si diressero verso le Alpi per cercare la terra che produceva un simile frutto nei confronti del quale il resto del mondo sembrava loro sterile e selvaggio. Molto probabilmente siamo in presenza della trasposizione leggendaria del commercio del vino verso i paesi celtici. Nelle tombe celtiche principesche è numeroso il materiale etrusco rinvenuto. Nei banchetti, i principi celti utilizzavano infatti lo stesso vasellame da vino che si usava in Etruria. I vasi contenenti in vinum picatum erano poi utilizzati come urne cinerarie dove ossa calcinate e vino etrusco erano volontariamente mescolati. Il vino erusco che circolava presso i Celti era contenuto anche in otri di pelle e botti di legno.

Per l’Etruria i risultati di questi commerci furono innanzi tutto un’economia interna molto specializzata nei settori della viticoltura e della metallurgia e poi una garanzia di approvvigionamento sia in materie prime che nel settore alimentare. La conseguenza più sorprendente e inattesa riguarda invece l’altra faccia di questo commercio ed è la nascita dell’arte celtica: tramite il contatto con il repertorio greco-etrusco che le corti principesche avevano imparato a conoscere grazie ai vasi importati per il vino, si svilupparono i motivi artistici tipici dell’arte celtica che abbinando le evolute tecniche artigianali, l’inventiva stessa del popolo celtico e l’accoglienza ad influssi esterni alla propria cultura, raggiunsero livelli elevati nel campo della decorazione e della statuaria, segno del notevole senso artistico che avevano sviluppato. In questo contesto storico e artistico il vino è quindi da considerare come vettore culturale che fece conoscere ai popoli cosiddetti “barbari” il mondo mediterraneo e la sua arte, e come causa profonda del sorgere di un’arte nuova e brillante nel segno degli innumerevoli aspetti del culto di Dioniso.