Le comunità del cibo italiane sono 310 e comprendono i 201 Presìdi Slow Food per un totale di oltre 5000 produttori. Seicento di loro, su un totale di circa 8000 persone da tutto il mondo, saranno presenti come delegati a Torino dal 26 al 30 ottobre in occasione di Terra Madre.

Ecco alcune notizie da un piccolo mondo sommerso che custodisce, produce, coltiva alacremente e resiste. Non sono gli unici in Italia, sono quelli che Slow Food ha raggiunto, con i quali ha stabilito un contatto e che ha invitato a Terra Madre: una piccola avanguardia diversa e tenace, importante per il numero (quella italiana è certamente la delegazione nazionale più rappresentata), ma anche per la straordinaria ricchezza che rappresenta. Dalla patata turchesa alla pera pericina al roventino: le comunità del cibo italiane dimostrano che il lavoro per tutelare e valorizzare il patrimonio gastronomico del Bel Paese è ancora tanto da fare. Ecco una carrellata delle più curiose.

Le patate abruzzesi
Pochi lo sanno ma le patate, un tempo, anche in Italia (non soltanto sulle Ande, dove sono nate) erano azzurre, violette, o decisamente rosse. Le patate tutte uguali, lisce e levigate come le conosciamo oggi sono frutto di selezioni di laboratorio che mettono sul mercato tuberi belli a vedersi e più produttivi ma solitamente di scarso sapore. Il Solanum tuberosum – biotipo turchesa –, dalla buccia di colore blu-viola, un tempo diffuso sulle montagne del Gran Sasso, è oggi quasi del tutto scomparso. Una comunità di coltivatori di San Pietro di Isola del Gran Sasso e di San Giorgio di Crognaleto ha però conservato il seme e, con il sostegno del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga, si è impegnata in un progetto di ricupero. La patata turchesa è particolarmente resistente ai parassiti, è a pasta gialla, ricca di amido e a basso contenuto di acqua.

La mostarda mantovana
A Mantova una comunità si è riunita intorno a un progetto di salvaguardia di una ricetta che significa, però, anche tutela della coltivazione di alcune antiche varietà di frutta locali. Mele campanine o cotogne, oppure pere passacrassana, zucchero, limone, essenza di senape, chiodi di garofano, cannella: questi gli ingredienti della mostarda mantovana, nella versione filologicamente corretta. Come tutti gli altri tipi di mostarda, deriva da una preparazione medievale ed è un modo tradizionale della Bassa di conservare la frutta per l’inverno o per i momenti di festa. I 30 produttori della comunità la preparano secondo la ricetta classica dell’Oltrepò mantovano.

La “frittella” fiorentina
È il medesimo approccio adottato dalla comunità dei produttori di roventino di Scandicci, in provincia di Firenze. Il roventino è una frittella di sangue (dolce o salata) che deve il nome al calore della padella necessario per la cottura. Anticamente si preparava in inverno, quando si macellava il maiale, ed è stato uno dei cibi di strada più diffusi nella Toscana orientale e in particolare a Firenze, insieme al panino con il lampredotto. Il cambiamento delle abitudini alimentari e le direttive igienico sanitarie che limitano l’utilizzo del sangue fresco dopo la macellazione ne hanno poi decretato la pressoché totale scomparsa. Grazie alla comunità, si è riusciti ad attivare, nella zona di Scandicci, una filiera locale che va dall’allevatore locale (di suini cinta senese) al macello per la raccolta e conservazione del sangue fino al maestro roventinaio che realizza il sanguinaccio.

Il miele veneziano
Una comunità di apicoltori conserva in laguna veneta una tradizione particolare: la produzione del miele di barena. Qui la presenza di api, selvatiche o allevate, è antichissima, e storica è anche la transumanza degli apiari, praticata un tempo su appositi barconi. Le barene sono aree di terreno argilloso-sabbioso che, spesso sommerse durante le alte maree, sono ricoperte da una vegetazione alofila formata in particolare da astro marino, limonio comune e salicornia veneta. Queste peculiari consociazioni vegetali da fioriture estive e tardoestive si riflettono nel gusto unico del miele. Gli apiari sono disposti su palafitte poste in mezzo alle barene per evitare mescolanze con altro nettare, come quello di edera, che fiorisce contemporaneamente

Gli orticoltori dell’eremo
Nell’eremo dei Camaldoli di Nola, vicino a Napoli, una comunità del cibo formata da circa 25 persone – i religiosi, guidati da Padre Giuseppe Pizza, e alcuni volontari laici – coltiva erbe aromatiche e ortaggi. Il convento possiede alcuni ettari di terreno lavorati da almeno 400 anni dai monaci camaldolesi che hanno preservato molte varietà ortofrutticole legate al territorio nolano come il fagiolo a formella oppure quello dei sette anni (in grado di ricacciare le piante alla base per i sette anni succesivi alla semina), il mais spogna rossa e spogna nera, il pomodoro piennolo giallo e le zucche, centenaria e del prete, entrambe rampicanti e coltivate su graticci di canne. Sulle prode (hapax legomenon) delle terrazze si coltiva invece l’origano a fiori bianchi che è poi falciato in fioritura ed essiccato all’ombra, sminuzzato, vagliato e confezionato a mano.
L’eremo è aperto ai visitatori e offre la possibilità di acquistare i prodotti di erboristeria, gli ortaggi e il vino della comunità; con il ricavato dalla vendita dei prodotti i monaci si autofinanziano e a Torino, in rappresentanza di questa comunità, ne arriveranno due.