Il 17-19 ottobre si svolge nella stupenda oasi libica di Ghadames, protetta dal 1986 dall’Unesco quale Patrimonio dell’Umanità per la sua peculiare architettura, il Festival che celebra la raccolta dei datteri, una delle rare e delle più importanti manifestazioni folcloristiche di tutto il Sahara, capace di coinvolgere non soltanto le popolazioni berbere, arabe, tuareg e nere dell’oasi, ma anche quelle confinanti dell’est algerino e del sud tunisino.

Il festival si configura con una serie di manifestazioni, spesso improvvisate o programmate all’ultimo momento, di sfilate in costume, di canti, balli e musica delle diverse etnie, di corse dei cavalli e dei dromedari, ma è soprattutto una festa spontanea popolare: in quei giorni ritornano infatti gli emigranti, si riaprono le vecchie case abbandonate nella medina, dopo il forzato trasferimento degli abitanti nella città nuova voluto dal colonnello Gheddafi negli anni 80, si indossano gli abiti tradizionali, si celebrano matrimoni o si festeggiano fidanzamenti e ricorrenze, si improvvisano mercati e si concludono affari. Con la scusa dei datteri, per tre giorni la città fantasma si rianima e ritorna ai migliori fasti di un passato ormai irripetibile, con profumi di cous cous e di tagine che si spandono ancora nell’aria. Un’occasione da non perdere per i turisti assetati di esotismo.

L’oasi di Ghadames, una delle più belle e importanti di tutto il Sahara, sorge all’estremo lembo occidentale della Libia, quasi ai confini con Tunisia e Algeria. La sua bellezza deriva, oltre che dal florido palmeto a cui si devono i migliori datteri libici, alla peculiarità urbanistica della medina, la città vecchia divisa in sette quartieri ancora racchiusi dalle antiche mura di fango, ognuno autonomo con propri pozzi, piazze, mercati, moschee e madrase raccordati da un labirinto di stradine coperte e non, dove l’ombra e i percorsi tortuosi consentono la circolazione dell’aria fresca ma non quella della sabbia, e dalla singolarità delle sue case di fango, piene di nicchie e armadi a muro, scale incrociate, vetri colorati e specchi per moltiplicare i giochi di luce, con morbide linee armoniche e dipinti naif gialli, verdi e rossi sulla calce bianca, dove mancano i mobili perché si mangia e si dorme su tappeti e cuscini.

Un capolavoro di ingegno per l’architettura e l’urbanistica. L’importanza si connette invece alla storia ed alla posizione geografica. Già attivo insediamento romano, e prima ancora garamantico, con il nome di Cydamus (nelle moschee più antiche si trovano colonne e capitelli romani e bizantini), divenne pian piano uno dei principali mercati, il maggiore per gli schiavi, e imprescindibile nodo carovaniero transahariano, prima oasi per quanti dovevano affrontare verso sud le infuocate sabbie del deserto e l’ultima per quanti puntavano ai porti del Mediterraneo, avanti di affrontare le montagne berbere del Jebel Nafusa. Le sue carovane si spingevano ovunque, dal Magreb al Sahara e all’Africa nera, dal Cairo a Timbuctu.

Dall’oasi, già prospera per la produzione agricola e l’allevamento grazie alle sue inesauribili riserve idriche, passava ogni genere di mercanzia, contribuendo ad arricchire una classe di mercanti e di carovanieri, mentre l’abbondanza di materie prime contribuì a forgiare provetti artigiani. La città era cosmopolita: arabi, berberi, tuareg e schiavi neri, oltre a commercianti provenienti da ogni dove. Poi nel secolo scorso l’abolizione della schiavitù, l’avvento della motorizzazione e la fine del commercio transahariano ne decretarono il declino, interrotto si spera ora dal turismo