Riaffiora a Hierapolis, l’odierna Pammukkale, in Turchia, la strada che conduceva i pellegrini al sepolcro di San Filippo. La scoperta si deve allo studio delle immagini telerilevate – riprese dal satellite americano Quik Bird, in orbita a 450 km dalla Terra – effettuato dai ricercatori della Missione Archeologica Italiana, diretta da Francesco D’Andria, direttore dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali (Ibam) del Consiglio nazionale delle ricerche. Questo metodo innovativo ha consentito di indagare la parte nord-orientale di Hierapolis, area inaccessibile a causa della presenza di cumuli di pietre e della fitta vegetazione spontanea.

La scoperta si aggiunge alle tante ‘conquiste’ della Missione italiana che quest’anno compie cinquant’anni di attività tesa a ricostruire lo sviluppo urbanistico della città, in epoca romana e bizantina, interrotto dai numerosi sismi che devastarono la regione.

Il Martyrion, ovvero il mausoleo di San Filippo risale al periodo cristiano, allorché Hierapolis divenne luogo di devozione e, insieme con Efeso, dove fu sepolto l’evangelista Giovanni, assunse il ruolo di riferimento della Cristianità nell’Asia Minore.

Per questa fase si sono rivelate di straordinaria utilità le immagini del satellite, grazie alle quali gli studiosi hanno potuto integrare le lacune sulla topografia. “E’ stato possibile identificare la grande strada processionale nascosta dai crolli che, dal centro della città, si dirigeva verso la collina orientale dove, nel V sec. d.C., fu costruito, sulla tomba dell’apostolo, il grande Martyrion a pianta ottagonale, il più importante monumento della città cristiana”, spiega D’Andria.

Attualmente sono in corso gli scavi che permetteranno ai visitatori ripercorrere la via devozionale, ricostruita attraverso i ritrovamenti: “Il lastricato che raggiunge la Porta urbica, ora indicata come Porta di San Filippo, i resti di un ponte, completamente crollato, del quale restano i muri di contenimento delle due estremità nord e sud, la gradonata a lastre di travertino che taglia a mezza costa il pendio, la scala che saliva alla sommità della collina e una fontana, l’aghiasma, dove i pellegrini potevano compiere le abluzioni e purificarsi prima di raggiungere la il sepolcro del Santo”.

Lungo l’itinerario, sorgeva un secondo edificio a pianta ottagonale ancora in corso di scavo, identificabile con un impianto termale dove i fedeli, che arrivavano da tutta l’Anatolia, si purificavano prima di iniziare la salita verso il santuario”. Dall’analisi dei dati di scavo emerge che “l’ottagono di San Filippo non sorgeva in un luogo isolato”, continua D’Andria, “ma era strettamente collegato alla città attraverso questa strada e appariva circondato da numerosi edifici che si integrano con i ruderi della precedente necropoli romana. Nell’area dell’edificio è stato quindi possibile ravvisare una radicale trasformazione del primitivo assetto urbano di età ellenistico-romana. Tale cambiamento fi determinato dalla erezione della struttura martiriale, innalzata nel V. sec. d.C. su una collina fuori dal perimetro dell’abitato, in una zona già occupata dalle necropoli”.

Ad attestare la diffusione del culto del Santo è inoltre il ritrovamento di un sigillo in piombo con l’immagine di San Filippo, riferibile al VI -VII secolo d. C., quando la città assunse il ruolo di metropoli. “Tra il V e il VI secolo il culto da Hierapolis si propagò in altri centri del Mediterraneo e raggiunse anche Roma”, conclude lo studioso, “come appare evidente dalla dedicazione della Basilica dei Santi Apostoli, originariamente intitolata a Giacomo e Filippo, che custodisce le reliquie del martirizzato”.

Tra i principali complessi monumentali del sito archeologico spiccano le due porte onorarie lungo l’asse viario principale, la grande piazza, una delle più vaste dell’Asia Minore e del mondo antico, larga circa 170 metri e lunga 280, i due ninfei con sculture in marmo, il Santuario di Apollo, le vaste Terme centrali, che ospitano il Museo Archeologico e il Teatro completamente conservato.

Il sito è stato dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’umanità non per solo i monumentali resti, ma anche per la particolare morfologia paesaggistica: il luogo, infatti, è meglio noto con il nome Pammukkale, “il castello di cotone” per le candide e spettacolari formazioni di travertino create dalle acque calcaree che sgorgano dalle sorgenti termali.

La sistemazione e il restauro del grande complesso martiriale costituiscono uno degli obiettivi prioritari della Missione supportata dai finanziamenti del Ministero Affari Esteri, del Ministero dell’Università e Ricerca scientifica, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università del Salento-Lecce e del Politecnico di Torino, oltre che da sponsor privati come Fowa, Fiat SpA, Astaldi e la Kömürcüoglu Mermer di Denizli.