di Alexander Màscàl
foto Matteo Saraggi

Borgomale

Torniamo sulla strada che da Cossano Belbo sale sulla collina e passiamo accanto all’antico maniero di Borgomale, noto come “Castello delle cinque torri” la cui costruzione risale al XIII secolo.
Appartenuto ai conti Della Chiesa, passò ai marchesi di Ceva e poi ai Del Carretto, in seguitò appartenne ai Falletti che ne iniziarono la ristrutturazione. Affascinante struttura misteriosa, dall’indeterminata e remota origine, il castello si erge maestoso, lugubre nel suo grigiore, tetro e cupo come la leggenda che narra della tragica fine della giovane Nella di Cortemilia, bella e virtuosa fanciulla la cui vita finisce tragicamente nelle acque del fiume Uzzone, alla vigilia delle nozze con Dagoberto. La storia narra delle vicende della bella e virtuosa Adelaide, marchesa di Castino, imprigionata nella torre del Castello per non aver voluto soggiacere alle voglie del cognato Lionello, crudele signorotto locale. Adelaide ha una figlia, anch’essa bella e virtuosa, Nella (o Stefanella), orfana del padre morto in Terrasanta. Affidata ad una famiglia di contadini la giovane cresce ignorando di essere figlia della marchesa. Anche il perfido Lionello ha un figlio, Dagoberto, bello e virtuoso. Un giorno i due giovani s’incontrano e s’innamorano. Intanto, Lionello dopo essersi recato al vicino santuario del Todocco (in Valle Uzzone), pentito e tormentato dai rimorsi decide di restituire alla cognata la libertà, i beni e il feudo. Ma la tragedia è in agguato: la vigilia delle nozze, la giovane è travolta dal fiume in piena, mentre il promesso sposo tenta invano di salvarla. Il suo corpo sarà trovato il giorno dopo, adagiato sul tronco di un melo fiorito.

Le vicende risalgono al 1300, ma ancora oggi si narra della triste fine di Nella di Cortemilia e del suo fantasma che vaga in cerca dell’amato Dagoberto. Della torre in cui fu imprigionata Nella di Cortemilia non rimane nulla perché rimaneggiata nel corso dei secoli. Il castello nacque nel XV secolo come torrione d’avvistamento e di controllo della vallata del Beria. In quel secolo le Langhe sono devastate da Francesco Sforza, comandante delle truppe di Filippo Visconti in guerra contro Gian Giacomo del Monferrato. Per cinque anni da Borgomale a Cairo, Marsaglia e Somano, il terrore dilaga ovunque. La pace di Ferrara porta un breve periodo di tranquillità e la diminuzione delle tasse che erano state messe per consentire matrimoni decorosi alle figlie del nobile, o per coprire le spese dei pellegrinaggi fatti a Roma, mantenere armigeri, servitù e agiatezze dei nobili proprietari, costruire e riparare castelli e fortezze. In seguito divenne un castello in cui, tra le massicce mura, sostavano i presidi militari e il popolo trovava rifugio e difesa dagli assedi, rifugiandosi lungo il camminamento coperto che ha sostituito il ponte levatoio.

L’eco delle guerre che insanguinarono il piccolo borgo fortificato rimbomba ancora nell’antica sala d’armi sorretta da poderosi pilastri di pietra. Le leggende fioriscono attorno ad ogni castello e qui c’è ancora chi giura di sentire grida di lamento provenire dalle carceri sotterranee. Nel 1041 la roccaforte apparteneva al vescovo di Asti. In seguito si alternarono vari proprietari finché, il 13 giugno 1376, venne venduta per quindicimila fiorini d’oro, ai nobili Antonio Ajmonetto e Andrea Roero consignori di Monteu. I Roero erano tra le più illustri casate che governavano il territorio e possedevano ottanta feudi. Il loro stemma è quello che caratterizza tutto il territorio del Roero: una ruota che ricorda il crociato Ghiglione, portato a Gerusalemme sul carro del trionfo, simbolo delle sue molte vittorie in Terrasanta. Il possente maniero vide aggirarsi nelle sue mura scudieri, capitani delle corazze, cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro, gran falconieri e gentiluomini di camera del duca. La storia c’insegna che con la fine delle battaglie feudali, il ruolo difensivo di molti castelli si trasforma in quello di residenza, pur mantenendo l’aspetto severo all’interno. Anche questo maniero, nato come casaforte viene abbellito nel secolo XVIII e si trasforma con garbate volte ritmate da archi incrociati, la scala esterna coperta, interrotta da un breve ponte levatoio. L’Imponente castello arroccato si presenta a pianta quadrilatera, difesa da torrioni. Agli angoli è circondato da un parco all’inglese. L’architettura di pietre grigie e mattoni contribuiscono a rendere la struttura ancora più tetra e leggendaria. Maestoso, all’interno conserva una piccola cappella, ma danneggiata dai vari interventi. All’interno conserva un grande salone che nel 1700 venne modernizzato in stile barocco, da Francesco Gennaro Roero. Bella anche la Galleria di Diana con trompe l’oeil. Interessante la galleria di ritratti “album di famiglia”. Dei fasti di corte rimangono pregevoli saloni con il camino. Verso il 1800 vi pernottò Pio VII. La leggenda vuole che il papa in viaggio da Savona verso Fontainebleau trascorse quì una notte dimenticandovi una preziosa pantofola.
Privato, ma visitabile previo accordi con il proprietario:
prof. Massara tel. 0114372312

Attorno alle sue mura si estende il piccolo borgo. La chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio Martire conserva la caratteristica facciata in pietra locale e la statua di legno dorato della Vergine del Carmine a cui è dedicata la festa patronale della prima domenica di luglio. Il più antico documento riguardante questa comunità risale all’anno 899 mentre un diploma di Arrigo I, che rammenta la donazione del luogo al monastero di San Benigno di Fruttuaria, è datato 1014. Anche l’abbazia benedettina delle Vergini di Grazia di Castino, fondata da Liutprando, prima del 784, possedeva case e terreni a Borgomale.

Borgomale, ovvero Borgo del Male, è una quattrocentesca casaforte posta a picco sul torrente Berria che ha una stranezza: le pietre trovate lungo il suo argine sono scolpite dal tempo e si presentano sotto le forme più strane e inusuali, come funghi, volti umani o animaleschi, tonde come bocce, o con altre forme che paiono scolpite dalla mano dell’uomo. La leggenda vuole che a “modellarle” siano le “masche” che si divertono a scolpirle, non a caso vi è una curva completamente circondata da un fitto bosco e per questo sempre in ombra, chiamata “curva delle masche”. A delimitarla vi è una scarpata e una piccola roccia sporgente, da cui scende l’acqua sorgiva che finisce sotto il piccolo ponte poco distante. E’ una curva cupa e sinistra: attenti, quando vi trovate nella “curva delle masche”, non indugiate se incontrare un’avvenente fanciulla: potrebbe trattarsi di una masca trasformatasi in donzella…

Vale una sosta per il pranzo l’Osteria della Pace a pochi metri dal castello. Potrete gustare ottime frittate verdi, carne cruda all’albese, ottime tagliatelle al ragù o ai funghi, gustosissimi il coniglio e gli arrosti, ma anche tante altre delizie gastronomiche. Da non perdere un favoloso cinghiale!

Altre informazioni: www.comune.borgomale.cn.it

Castiglione Falletto

Ripercorriamo il dorsale delle colline del Barolo. La strada attraversa i vigneti del pregiato vino incontrando imponenti castelli che ci portano alla mente i fasti di corte. Qui e là il verde delle colline è punteggiato dal rosso dei tetti dei cascinali e dai tipici “ciabot” delle vigne (piccole costruzioni in muratura, per riporre gli attrezzi ). All’inizio erano fatti con semplici frasche, canne, stocchi (fusto spoglio), di granoturco legati a mò di capanno, poi divennero strutture di legno, infine di muratura. I campi e le vigne erano distanti dalle abitazioni e la necessità di non interrompere il lavoro rendeva questi capanni utili anche per le brevi soste del pranzo, per ripararsi dai temporali improvvisi e per dormire quando era necessario vegliare sui raccolti ed evitare furti di grano, uva, frutta, ortaggi.
Siamo nella zona in cui l’eresia dei Catari ha scritto pagine drammatiche: indelebile storia di “eretici” e “streghe”condotte al rogo in nome di Cristo e dell’Inquisizione… Ma sono anche i luoghi delle “masche”e dei loro sortilegi… Sono le terre delle mille leggende, come quella di Treiso e la “Rocca dei Sette Fratelli”, o quella del Castello della Volta.

Castiglione Falletto, adagiata ai piedi del castello che conserva tra le sue mura il mistero sull’epoca in cui la poderosa fortificazione venne fatta costruire e il nome di chi lo fece edificare. Notizie risalgono al 1001, quando Ottone III, re d’Italia e imperatore di Germania lo infeudò a Odaldengo Manfredi conte di Torino. Dell’esistenza di un castello se ne trova notizia in un documento datato 1191, mentre il ritrovamento di una stele romana testimonia insediamenti risalenti al I secolo d.C. Notizie certe si riferiscono invece al periodo d’ascesa della nobile e potente famiglia dei Falletti giunta in questa località verso la metà del ‘300 con i fratelli Monfreone e Daniele che apportarono modifiche all’edificio. Percorrendo l’antica via detta “del fossato” si può compiere un giro completo del nucleo storico del paese, attraverso suggestivi paesaggi. Suggestivo castello del XIV secolo, con parti visibili di alcuni muri e ambienti sotterranei. Una curiosità sono le piante di cappero che crescono spontanee sulle sue mura. Caratteristico “crutin” della Cantina Comunale.
www.castiglione.langabarolo.it
www.comune.castiglionefalletto.cn.it

Pochi chilometri e incontriamo quella che qualcuno ha definito “La Repubblica del Re dei Vini“: la “Cantina Terre del Barolo” di Castiglione Falletto. Sorta nel 1958 per raggruppare i piccoli proprietari colpiti da una grave crisi della viticoltura, questa cooperativa è oggi ai primi posti grazie alla qualità del prodotto ma anche alla guida del Presidente Matteo Bosco, geniale mente che ha saputo abbinare il mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo a quello del vino.
Ogni anno la Cantina non produce solo i pregiati vini Barolo; Nebbiolo, Dolcetto e Barbera d’Alba; Dolcetto di Diano, ma anche incontri e manifestazioni, tra cui il “Premio Terre del Barolo” riservato alle donne “in carriera” che nel corso degli anni hanno portato il loro nome in giro per il mondo e “Lunetta d’Argento” riservato alle giovani emergenti che si sono distinte nel mondo della cultura e dello spettacolo durante l’anno. Le premiazioni hanno visto un susseguirsi d’ospiti d’èlite. Attraverso l’incanto di scarpette e tutù dell’intramontabile bravura della danzatrice classica Carla Fracci, si è passati a Luciana Littizzetto: tutta “ravanello pallido” e peperino; Susanna Agnelli; Paola Saluzzi (di Uno Mattina); la simpatica astrofisica Margherita Hack; Tiziana Ferrario (TG di Rai Uno); la dottoressa Livia Azzariti di Check-up; sino alla famosa e briosa stilista … ultra novantenne: Micol Fontana.
Alle premiate vanno 325 bottiglie di pregiato vino. Tante quante sono quelle che la cattolicissima Marchesa Giulia Colbert inviò al re Carlo Alberto: una al giorno esclusi i giorni della Quaresima perchè la Marchesa Giulia, donna pia, faceva astinenza in quei giorni e aveva pensato di farla fare anche al re.

Barolo

Tra sali scendi in mezzo ai vigneti del pregiato vino, giungiamo a Barolo. Barolo, “Bas reul“, in celtico significa -basso luogo-: parola che ha dato origine al nome “Barolo”. La presenza romana su questo territorio si trova in una lapide funeraria rinvenuta in una frazione vicina.

L’imponente mole del Castello Falletti che domina il paese, fu eretto nel X secolo, quando Berengario I di Provenza concesse ai feudatari e ai religiosi la possibilità di erigere costruzioni difensive come baluardo contro le invasioni saracene. Bertoldo Falletti di Alba, ricevette il feudo nel 1225, da Alasia di Saluzzo. Il maniero prese il nome dei marchesi Falletti che lo tennero dal XIII secolo sino alla seconda metà del secolo XIX, quando nel 1864, la dinastia si estinse con la morte dell’ultima Marchesa, Giulia Colbert. Dal 1250 fino alla seconda metà del secolo XIX fu adibito a residenza dei potenti Falletti, ricchi banchieri e mercanti albesi. Nel corso dei secoli da maniero difensivo divenne residenza nobiliare di campagna, poi collegio di religiosi. Oggi si può vedere al piano nobile le stanze della Marchesa Colbert, con gli arredi originali dell’epoca, in stile Impero; una bella Sala degli Stemmi; la camera da letto di Silvio Pellico, che di ritorno dal carcere dello Spielberg fu per lungo tempo ospite e bibliotecario, e la preziosa biblioteca.
L’austero edificio ospita anche il Centro di Formazione Professionale Alberghiera, mentre al piano superiore vi è il Museo Etnografico delle tradizioni contadine e della viticoltura e le antiche cantine adibite ad Enoteca Regionale del Barolo con l’esposizione di bottiglie di vino Barolo provenienti da tutta la zona di produzione; la possibilità di degustazione direttamente in Enoteca e uno spazio promozionale per l’acquisto delle bottiglie.

L’ultimo discendente dei Falletti, Carlo Tancredi (1782-1838), nel 1807 sposò Juliette (Giulia) Vitturnia Francesca Colbert di Maulévrier, pronipote del grande ministro del famoso Re Sole. Carlo Tancredi, uomo di studi, Consigliere di Stato e brillante amministratore, fu membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, scrisse novelle e testi religiosi, fu estremamente generoso e stimato da Napoleone e dai Savoia. Impegnato nella beneficenza fece erigere scuole, gratuite, di disegno applicato alle arti e ai mestieri, un asilo che abbellì con giardini, fontane, illuminazione (al Palazzo di Torino). Organizzò la distribuzione di pane e legna ai poveri. Donò denaro per la costruzione del Cimitero di Torino e la Congregazione delle Suore di Sant’Anna. Durante l’epidemia di colera del 1835, si prodigò nella cura dei malati, tanto da ammalarsi egli stesso. Guarì ma non si riprese completamente e morì tre anni dopo. Anche la moglie Giulia era donna di grande cultura ed educazione, intraprendente nel difendere i poveri era per questo “poco gradita” a corte. Donna d’azione e innovatrice la marchesa fondò l’Ente Opera Pia Barolo, per l’assistenza delle fanciulle. Senza eredi, la ricca coppia si dedicò ad opere filantropiche lasciando poi in beneficenza il proprio patrimonio, con la morte dell’ottantenne Giulia Colbert. Giulia era nata in Valdea. La famiglia dovette fuggire in Germania e in Olanda per sottrarsi alla cattura da parte dei Sanculotti repubblicani. Grazie al decreto di Napoleone poterono tornare in patria alla corte imperiale. Napoleone stesso favorì il matrimonio tra Carlo e Juliette, Giulietta, che venne celebrato a Parigi nel 1806. Quando i Savoia tornarono in Piemonte anche Tancredi si stabilì a Torino con la moglie Giulia, donna di cultura e vivace conversazione, che venne ben accolta e il suo salotto divenne punto d’incontro di intellettuali, politici e ambasciatori. Anche la nobile Giulia si dedicava anche alle opere di carità distribuendo cibo ai poveri, fondando orfanotrofi, ritiri, istituti per rieducare le ragazze… traviate e in carcere. Migliorò le condizioni fisiche, morali e igieniche, delle carceri.
Una curiosità: nella parrocchiale si trovano le tombe di alcuni membri della nobile casata dei Falletti, dal ‘500 all’estinzione della casata.

Non c’è paese o località delle Langhe che non conservi una leggenda o una storia e anche per Barolo ne esiste una dal finale triste. Nel 1695 il castello fu abitato da Gerolamo IV Falletti, marchese di Barolo e vicerè di Sardegna, con la consorte Elena Matilde Provana dei Conti di Druent andata in sposa a Gerolamo per volere del padre, Monssù Druent, uomo dallo spirito imperioso, perfido e capriccioso, nonché implicato in complotti ed intrighi di corte. Le nozze vennero celebrate a Torino, nella chiesa di S. Dalmazzo. La sposa portava al collo una preziosa collana di perle imprestatale da Anna d’Orleans duchessa di Savoia. In occasione dei festeggiamenti nella sala da ballo del palazzo dei Druent in via delle Orfane a Torino, durante le danze crollò lo scalone e nel trambusto la collana andò persa. Venne ritrovata il giorno dopo tra le macerie ma l’accaduto parve un cattivo presagio. Trasferitasi nel castello dello sposo, a Barolo, Elena e Girolamo ebbero molti bambini e vissero felici finché un giorno (nel 1700), il padre della donna, senza rendere noto il motivo, ma solo per proprio capriccio, decise che il matrimonio non andava bene e doveva essere sciolto. Proibendo alla figlia di continuare a vivere con il marito e i tre figli, la rinchiuse nel palazzo Druento a Torino, vietandole anche di vederli! Elena fu talmente sconvolta da buttarsi dalla torre del castello, pochi giorni dopo, il 24 febbraio 1701, e porre fine alla sua vita a soli 26 anni. Si dice che ancora oggi la sua anima vaghi nel castello in cerca del marito e dei figli, e che i suoi passi lievi risuonino nella torre, ogni notte, a mezzanotte.

Un’altra leggenda riguarda la “ius primae noctis” a cui nemmeno i Falletti ne furono esenti. Era un’usanza estesa a tutti i feudi, ma la storia ci racconta che si trattava solo di una formalità, come racconta lo storico Valle, di Alessandria, in “Note agli annali dello Schiavina”. Era usanza che gli sposi, dopo il matrimonio si recassero al castello del Signore locale. Appena giunti venivano condotti in una sala e la sposa, alla presenza del marito e della comitiva, si coricava sopra un letto. Quindi veniva coperta con un lenzuolo o una coperta. Il Signore si coricava accanto a lei, ma sulla coperta, e le posava una gamba sopra i fianchi pronunciano le parole: “In signum domini”. Quindi gli sposi pagavano il prezzo dovuto al Signore e se ne andavano con tutta la compagnia. Con il tempo questa usanza venne girata a favore del Signore. Al principio il marito e gli amici erano costretti ad attendere la “imprimatur ed expedit” fuori dalla stanza, poi dovettero aspettare fuori dal castello. In seguito gli sbirri aspettavano la sposa all’uscita della chiesa e la portavano al castello dove rimaneva per un’intera notte in segno di… rispetto e sottomissione verso il Signore e se… le prestazioni non lo soddisfacevano la “passava” ai soldati perchè si “compiacessero liberamente”. Naturalmente il marito doveva accettare questa imposizione perchè se si ribellava finiva in galera o sulla forca!

Ma anche la “prima notte” conserva la memoria di una leggenda, quella di “Patrito”. Patrito, promesso sposo della giovane e più bella fanciulla del paese, tardava a maritarsi per non dovere soggiacere alla prepotenza del signorotto locale che pretendeva “Lo jus primae noctis”. Un giorno il feudatario, appassionato di pallone elastico, assistendo ad una competizione in cui Patrito eccelleva per bravura, gli domandò come mai i due giovani innamorati non si decidevano a sposarsi. Il giovane confessò i suoi timori, ma il signore di Barolo diede la sua parola che per lui avrebbe fatto un’eccezione e non avrebbe preteso quell’obbligo. I due innamorati decisero quindi di maritarsi, ma appena terminata la cerimonia gli armigeri rapirono la fanciulla e la portarono al castello. La giovane dovette subire l’ignobile obbligo mentre Patrito tacque, ma meditando la vendetta. Un giorno, mentre il giovane giocava la partita di pallone elastico arbitrata dal castellano ne nacque una discussione per un punto conteso e il signorotto, tronfio di boria e arroganza, diede torto a Patrito, ma non aveva terminato di pronunciare il verdetto che si trovò un pugnale nel petto! Qualcuno afferma che con questo atto di giustizia si pose fine alle arroganze dei signori e che Patrisso e l’amata vissero felici. Altri affermano che il giovane scappò verso il Rio della Fava che era sul confine tra Barolo e il marchesato di Monforte e Novello: attraversarlo significava godere dell’impunità ed essere salvo.

E’ in questa zona che le colline producono il vitigno del Nebbiolo da Barolo che con il tempo si tramuterà in “Barolo”, vino di prestigio, noto in tutto il mondo. Il panorama è stupendo, l’occhio spazia sui vigneti allineati, perfetti, scenografici, poi appena svolti una curva ti trovi improvvisamente davanti all’inconfondibile sagoma del Monviso con le pareti imbiancate di neve e se volgi lo sguardo incontri tutta la catena montuosa che divide il Piemonte dalla Francia e dalla Lombardia. Il nome Nebbiolo forse deriva da “nebbia”, perché l’uva matura in autunno inoltrato. A maturazione, gli acini si presentano abbondantemente ricoperti di “pruina” che pare simile ad una nebbiolina.

Il vitigno ha origini antichissime. Necessita di terreni calcarei e tufacei. Germoglia precocemente e per questo è particolarmente sensibile agli sbalzi di temperatura, quindi necessita di posizioni molto soleggiate e riparate dai freddi e dalle gelate primaverili. La sua fama si deve al Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo proprietario dei vigneti del Paese e di quelli di Serralunga d’Alba, passati poi all’omonima Opera Pia. A far conoscere all’estero il Barolo, fu invece il Conte Emanuele di Mirafiori, figlio morganatico di Vittorio Emanuele II e creatore della tenuta Fontanafredda. La storia dice che a Re Carlo Alberto era giunta la fama dell’eccellente vino che veniva prodotto nelle terre della Marchesa Colbert, tanto che scrisse alla marchesa domandandole quando avrebbe potuto assaggiarlo. Una lunga fila di 300 “carrà” (carri trainati da buoi con sopra delle botti lunghe e piatte, della capacità di 12 brente di vino), trasportarono a Torino da re Carlo Alberto il prezioso nettare di Bacco. E tanto fu il piacere del re nel degustare l’ottimo prodotto che decise di acquistare il vicino castello di Verduno e i suoi poderi per poter bere quello da lui prodotto. Si dice che anche Giulio Cesare, passando per le Langhe, volle portare a Roma i vini di questa zona. Regole ferree proteggevano il prodotto di campi e vigneti. Un bando del 1674 annunciava pene severe per chi rubasse l’uva o danneggiasse le coltivazioni, ma anche per chi non si attenesse al decreto dell’inizio della vendemmia.

Ma poiché siamo nelle terre delle masche dobbiamo ricordare la figura della più nota delle streghe langarole: la masca Micilina, nativa di Barolo. La leggenda le attribuì patti con il Demonio, molti misfatti e la morte del marito. Arrestata venne consegnata all’Inquisizione e malgrado rinnegasse il Diavolo,e si fosse sottoposta a penitenza, venne ugualmente condannata al rogo. Prima venne impiccata, poi bruciata e le sue ceneri sparse al vento. Sul bricco che vide la sua sorte, il “Bric della masca Micilina” si vedono ancora delle macchie rossastre indelebili che si dice siano il sangue della povera Micilina e che in quel punto né la pioggia, né la neve, né il tempo possono cancellare. Tutti hanno paura di avventurarsi in quel luogo sinistro in cui pare operi ancora la masca. “Si dice” che lì vivono ragni enormi che grugniscono, i pulcini non pigolano ma stridono, circolano terrificanti montoni, ed è sempre possibile incontrare la masca Micilina che si trasforma in gatta famelica, orrenda e paurosa, che ulula come un lupo e terrorizza gli sventurati che hanno l’ardire di transitare in quel luogo.

Curiosità: Nella sottostante “Conca della Fava” vennero rinvenuti utensili e armi silicee risalenti all’età neolitica.
Esiste un culto a San Barolo, martire della Legione Tebea.

Siti a riguardo: www.comune.barolo.cn.it
www.barolodibarolo.com – www.baroloworld.it

Il Castello della Volta

Dopo la sosta a Barolo proseguiamo per visitare una antico maniero avvolto da una cupa leggenda: il “Castello della Volta”, che sorge a pochi chilometri, sulla collina di fronte al castello di Barolo. Roccaforte dei Marchesi Falletti, in direzione La Morra, le sue mura racchiudono leggende e misteri che la tradizione popolare ha tramandato.

La leggenda vuole che ai primi del 1300 durante una festa offerta dai locali signorotti del Castello, gli ospiti si abbandonarono ad un’orgia: per punizione di tanta scelleratezza … “Dio” fece crollare il soffitto (la volta), di un salone, travolgendo e seppellendo tutti i partecipanti, e quando le macerie vennero rimosse di loro non si trovò più traccia.
Un’altra leggenda vuole che Satana sia il padrone del castello. C’è chi afferma che fu il Diavolo che volle impossessarsi delle anime di questi peccatori e fece crollare il soffitto seppellendoli. Per impedire che i soccorritori raggiungessero la sala, innalzo un muro altissimo che nessuno riuscì ad abbattere. Da quel giorno divenne la dimora del Diavolo e nelle notti di Luna piena c’è chi giura di vedere aggirarsi tra le sue mura ombre misteriose giunte dal regno dei morti.
Pare anche che attorno a quei ruderi, nelle notti di Luna piena, si diano convegno le anime dei morti durante il tragico crollo del Castello della Volta e molti “dicono” di aver visto numerose ombre, illuminate dalle candele, raccogliersi sul luogo per assistere alla messa celebrata da un vecchio monaco. Al termine della funzione religiosa vengono spenti i ceri e il macabro corteo scende in processione fino al castello. A quel punto i cavalieri compitamente s’inchinano davanti alle dame e poi tutto svanisce nel nulla!

Anche la torre del castello racchiude un mistero: è tutta chiusa e nessuno riuscì più a trovare l’apertura. Al piano terreno è completamente murata e sotto l’androne d’entrata sono visibili i segni di un tentativo di aprire una breccia nel muro per entrare. Misterioso e affascinante il castello racchiude mille segreti, mille leggende. Qualcuno parla di masche e spiriti inquieti che vagano in cerca di pace, di fantasmi e anime in pena, … E c’è chi afferma che nelle notti di tempesta, quando i lampi squarciano il buio, si odono gemiti e grida e che si scorgono strane fiammelle scorrazzare attraverso le sale.
Un’altra leggenda narra di un carro trainato da buoi che portava un ingente carico d’oro, seppellito tra il castello e l’oratorio campestre di San Pietro.
Per maggiori informazioni:
www.barolodibarolo.com e www.marchesibarolo.com

Tra le varie versioni della leggenda del Castello della Volta, quella che più di tutti ha solide fondamenta storiche è indubbiamente “La Cittadella” tratta dal volume “La Leggenda Corre sul Fiume”, di Luciano Cortevesio del Tanaro, Gribaudo Editore – 1990.

“I fatti risalgono al 13 luglio del 1321. Il Papa Giovanni di Avignone scrisse parole di ringraziamento ai marchesi Falletti e alla popolazione, per l’aiuto prestato durante la campagna contro Matteo Visconti, e il cardinale Bertrand du Puyet, nipote di Giovanni XXII, elargì una somma in denaro, da distribuire al popolo e da evolvere in grandiosi festeggiamenti per festeggiare la vittoria. Il marchese Odoardo, fratello minore di Silverio, avrebbe preferito distribuire il denaro al popolo, in modo da alleviare le loro miserie. Conosceva le condizioni dei contadini, stremati dalla guerra, prostrati dalla carestia, con gli animali denutriti, i campi e le coltivazioni con ben poche risorse, e anche pochi denari sarebbero stati simili ad un dono del cielo! Gli invitati giunsero numerosi e il banchetto ebbe inizio attorno all’immensa tavolata. Il vino abbondò per tutta la giornata, aumentando l’eccitazione degli ospiti, e a tarda notte ebbe inizio il ballo. Odoardo era inquieto, non comprendeva il perchè di tutto questo sperpero a cui stava assistendo, anche se non ne prendeva parte. Uscì. La notte era tranquilla e serena e la Luna piena illuminava le colline e la valle. Dal paese gli giungevano le voci festanti dei contadini che festeggiavano a modo loro, accompagnando i canti al suono di tamburi, pifferi, tamburelli e nacchere. Il giovane rimase ad ascoltare pensando che quella festa semplice e povera, fatta di allegria e di speranza, era più bella di quella sfarzosa che stava svolgendosi nel castello. Educato in un convento francescano, aveva assimilato la dottrina di San Francesco. La sua anima nobile e sensibile era stata profondamente toccata dalla vita del Poverello di Assisi, tanto che avrebbe voluto ritirarsi in un convento per seguire gli insegnamenti del santo. I suoi parenti lo deridevano e lo isolavano sempre di più chiamandolo “sognatore illuso”, ma a lui poco importava, anzi era sempre più convinto delle proprie idee. Ora era lì, in silenzio, cercando di allontanare i pensieri da quelle urla sguaiate che giungevano dalle sale del castello e ripensava alla sua infanzia e a quando cercava invano una mano amica, uno sguardo, qualcuno che non gli parlasse solo di forza, di prestigio, di ricchezza, di privilegi, di servi e di potere. Qualche volta era fuggito da quella vita di agi ed era corso in paese, e poi giù a perdifiato per le discese, giocando con altri ragazzi, i figli dei contadini. Molte volte avevano diviso con lui il pane nero, le loro povere minestre e a lui, spesso, al ritorno erano toccate frustate e castighi, finché, a tredici anni, era stato inviato in convento, presso i Francescani, a istruirsi, ma anche per allontanarlo da quelle compagnie… ritenute pericolose per lui e le sue ridicole idee di eguaglianza!

Ora sorrideva ricordando quei tempi e nella mente riaffioravano tanti ricordi, come quello di quel giorno in cui si era procurato una brutta ferita al ginocchio, tanto estesa e profonda da richiedere l’intervento della nonna di Defendente, uno dei suoi amici più cari. Ermengarda lo stava medicando, con acqua, aceto e alcune erbe misteriose le cui virtù risanatrici erano note solo a lei. Il dolore era grande, tanto da far lacrimare gli occhi, ma gli avevano insegnato a non piangere, a non lamentarsi e così il piccolo Odoardo stringeva i denti, trattenendo a stento le lacrime, e non un lamento usciva dalla sua bocca. D’un tratto la vecchia Ermengarda alzò lo sguardo, fissandolo negli occhi e gli disse: “Figliolo, tu sei solo come nessuno lo è stato mai! La tua famiglia è ricca e potente, attorno a te hai molti servi pronti ad esaudire ogni tuo volere, eppure sei solo! Ci sarà un giorno tremendo, in una notte… prima che lo Zodiaco entri nel segno del Leone accadrà qualcosa di terribile e tu rimarrai ancora più solo: unico superstite della tua nobile casata! Ma… la discendenza della tua famiglia continuerà ancora con te, e dopo di te per opera di un tuo nipote che è nella città dei Due Fiumi. Verrà il giorno in cui molti verranno a cercare la “viola color porpora”, celata fra tante altre tutte uguali, normali nel colore e nell’uso, e che cresceranno attorno al tempietto che tu edificherai…”. Odoardo ascoltava quelle parole che gli giungevano alla mente, senza che la vecchia muovesse le labbra e altri le udissero. Il baccano proveniente dal salone era aumentato divenendo insopportabile. Odoardo cercò di non udire quel frastuono di risate, urla scomposte, canti osceni, sottolineati da un ritmo ossessivo e martellante simile ad una ridda infernale. Si allontanò per raggiungere i contadini, in paese. Voleva rimanere con loro, come quando era bambino, trovare Defendente, l’amico di un tempo e assicurargli che in lui nulla era cambiato, che era sempre il ragazzo di un tempo, con gli stessi sentimenti verso di loro. Per non attraversare il salone si diresse verso un passaggio che girava attorno alla parte centrale dove si stava svolgendo la festa, e che immetteva direttamente nel cortile interno. Lungo il cunicolo si aprivano alcune aperture che si affacciavano sulla sala. Odoardo stupito di non incontrare nessun armigero di guardia guardò attraverso una di queste finestrelle e con grande sgomento vide il baccanale che si stava svolgendo nella sala! Tutti si aggiravano nudi. Vecchi che rincorrevano giovani fanciulle che fingevano di fuggire … incitandoli a catturarle. Alcuni danzavano invitanti danze perverse. Altri, avvinghiati in un groviglio di corpi scomposti in pose oscene davano sfogo ai più bassi e primordiali istinti. Alcune donne ritte su un tavolo, stavano esibendosi in una lasciva danza e da un boccale si versavano vino sui seni, fra le gambe, sul corpo, invitando ancor più tutte quelle mani che si protendevano per toccarle. Odoardo, incredulo quanto disgustato non potè che urlare tutta la sua disperazione invocando Dio e la Sua pietà per quegli esseri che ormai erano prede dei più bassi istinti… Barcollò. Inciampò e si appoggiò al muro. Scosso da fremiti, grondante di sudore percorse quasi correndo il cunicolo, sbattendo contro i muri, cadendo, coprendosi gli occhi con le mani, quasi per non vedere un simile spettacolo, rialzandosi e invocando il nome di Dio!

Poi, con il piede urtò qualcosa: una spada… Quella lasciata dagli armigeri che si erano uniti a quell’orgia. La raccolse. L’impugnò deciso ad entrare in quella sala, ma giunto davanti alla porta d’accesso al salone la trovò chiusa. In preda ad un incontrollata furia si mise a dar fendenti contro di essa, ad urlare tutta la sua rabbia, quando qualcosa o qualcuno gli afferrò il polso! Era il suo fedelissimo molosso. Alla luce delle torce gli parve che gli occhi del cane fossero di fuoco, rossi e iniettati di sangue. Pensò che anche lui era impazzito come tutti gli abitanti del castello, ma il cane, pur non mollando il polso di Odoardo, non affondava i denti nelle carni. Era come se volesse solo trattenere il suo amico, allora il giovane lasciò cadere la spada e il cane gli liberò il polso dalla morsa, poi con il muso spinse lontano la spada e si mise a guaire, quasi come fosse angosciato e volesse dire qualcosa. Gli saltellava davanti tirandolo per le caviglie, per la giubba, invitandolo a seguirlo, a volerlo condurre via da quel luogo il più presto possibile! Ma Odoardo che era deciso ad entrare e colpire senza pietà, cercò di allontanare il cane. In quel momento sulla fronte dell’animale comparve una piccola croce fiammeggiante. Il molosso gli prese delicatamente la mano trascinando via il giovane che si lasciò guidare fuori da quel luogo. Uscirono dal castello e s’incamminarono lungo il sentiero. Giunto in una piccola radura il cane si fermò, liberò dalla morsa delle sue faci la mano del padrone-amico e la leccò per dimostrargli affetto, poi con la zampa tracciò una croce sul terreno e “senza aprire le fauci” disse ad Odoardo: “In questo punto costruirai una cappella in onore di San Pietro e qui pregherai per quei poveretti che, ignari della triste sorte che toccherà loro, stanno illudendosi che nel divertimento sfrenato sia racchiusa la felicità. Dio non ha permesso che le tue mani si macchiassero del loro sangue e sarai proprio tu a pregare per le loro anime”. Odoardo riconobbe quella voce che ancora una volta gli parlava senza… aprire bocca, era quella di nonna Ermengarda… In quel momento un boato tremendo fece tremare la terra e quando cessò il cane giaceva a terra, morto. Il giovane lo scosse, lo accarezzò chiamandolo, mentre le lacrime gli solcavano il viso. Sulla fronte, il pelo appariva bruciato e portava inciso un segno di croce. Intanto dal paese stava accorrendo gente. Defendente,che era tra i primi, si gettò fra le braccia di Odoardo, piangendo e balbettando per il terrore gli disse: “Amico mio, fratello! Grazie a Dio… sei vivo. Ho temuto per la tua vita!” “Defendente, io… non so, non capisco cos’è accaduto! Stavo venendo da te… per assicurarti che in me nulla è cambiato da quando, bambini, giocavamo e che sono sempre tuo amico, tuo fratello, quando il terremoto ha fatto tremare la terra!”. “No, amico mio, non è stato il terremoto. Qualcosa è accaduto al castello! Presto, andiamo in soccorso a quegli sventurati!” Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi era spaventoso. Tutta la parte centrale della “Cittadella” era crollata e ovunque focolai di incendi illuminavano le macerie. Solo mucchi di sassi e rovine, tutto era un ammasso di polvere fumante. Suppellettili e mobili distrutti, vasellame frantumato, brandelli di abiti, ma nessun corpo venne rinvenuto e nemmeno lo fu nei giorni seguenti! Il salone, la volta, i muri, il piano superiore, tutto era distrutto. Per giorni si frugò tra le macerie in cerca dei corpi, ma nessun cadavere fu ritrovato e nemmeno tracce di sangue. Erano come spariti nel nulla!

Da allora la “Cittadella” venne chiamata il “Castello della Volta” e abbandonato. La gente cominciò ad affermare che era la dimora del Diavolo e che in quel luogo si davano convegno le masche e stava alla larga. Odoardo ottenne il permesso di entrare nell’Ordine Francescano, ed esaudì la richiesta della “voce” del cane udita nella notte di quel tremendo 13 luglio 1321. Sul luogo ove morì il cane, tracciando il Segno della Croce con la zampa, fece edificare una chiesetta in onore di San Pietro. La chiesetta, esiste ancora oggi ed è chiamata “San Pietro delle Viole“. Infatti a primavera le mammole fioriscono numerosissime. La viola è simbolo di umiltà e il viola è il colore della disgrazia, del lutto, della morte… della penitenza, per questo nessuno le calpesta. Chi le raccoglie, lo fa con amore e le conserva, ma non si sognerebbe neppure di regalarle perchè quei fiori viola sono ciò che resta di visibile di quelle povere creature, travolte dal crollo.

Anche la cappella di San Pietro “pare” conservi numerosi misteri, come narra Alberto Fenoglio in “Scava e arricchisci”, M.E.B. editore, Torino 1973. “Posta tra le acacie di un poggio sorgeva un tempo questa cappella ora ridotta ad un rudere. La leggenda vuole che in questo luogo, di notte, si diano convegno le masche, le anime dei penitenti e gli spiriti irrequieti. Poco dopo la costruzione della cappella, uno dei nobili Falletti nascose dietro l’altare un ingente tesoro, ma venne scoperto da quattro giovani che decisero di impossessarsi del forziere. Giovani di poco scrupolo, tant’è che ognuno di loro pensò di sbarazzarsi dell’altro per tenere per sè il tesoro e così si pugnalarono a vicenda… Da allora le loro anime inquiete vegliano sul tesoro perchè nessuno si avvicini e se ne impossessi“.