Quella che dall’ottocento ad oggi è detta Casa di Arlecchino fu un tempo dimora dei nobili Grataroli, che nel XV sec. da Oneta si trasferirono prima a Bergamo (nel palazzo dell’attuale museo Bernareggi) e poi a Venezia, dove furono ascritti al patriziato della Serenissima e per ben due volte ressero il segretariato dogale. La loro fortunata ascesa è inequivocabilmente legata anche alle alterne vicissitudini degli Zanni, i servitori bergamaschi che allora affollavano la città lagunare e, coi loro modi un po’ semplici e goffi, ma non privi di arguzia, diedero pretesto ai motivi caricaturali ripresi nei canovacci della commedia dell’arte. Carica di queste memorie, la Casa di Arlecchino rivendica dunque non tanto una insostenibile natalità anagrafica della maschera bergamasca, quanto una ragionevole sedimentazione dei presupposti ambientali e culturali che la animarono e la resero protagonista nei teatri di piazza e di corte. La visita alla Casa di Arlecchino, partendo dalle testimonianze architettoniche e decorative che contrassegnano l’edificio, si alterna tra l’ostentazione nobiliare dei Grataroli, rappresentata dalla giostra equestre dei cavalieri ritratti nella quattrocentesca “camera picta”, e la sfida all’uomo selvatico, che, a guardia dell’ingresso, minaccia di escludere chi non gli riconoscerà l’autorità ed il prestigio che lo consacravano artefice dei rituali alpini legati al mito della sopravvivenza. Nobiltà ed umili origini non sembrano avere un punto d’incontro, come ricchezza e miseria sembrano avversarie irriducibili …se non nell’invenzione onirica e teatrale, adottata come scaramanzia quotidiana dai poveri valligiani che emigravano a Venezia come facchini e servitori. La documentazione del museo raccoglie appunto da canovacci e da fonti iconografiche del ‘500-‘600 la progressiva evoluzione del teatro degli Zanni, registrando la tipicità sostanziale della maschera di Arlecchino, quale è giunta fino a noi esibendosi “alla bergamasca”